sabato 15 dicembre 2012

Un cucchiaino di merda


Avete sentito del massacro in quella scuola del Connecticut? Ventisei vittime, e venti erano solo bambini tra i cinque e i dieci anni. Nel prossimo Angelus il Papa parlerà di come gli Stati Uniti confermino di essere la civiltà dei grandi sprechi.

“Vorrei poter fare arrivare il mio messaggio a più persone” ha commentato il Santo Padre “ma in 140 caratteri non ci stanno abbastanza doppi sensi”.

Questa storia mi ha lasciato davvero sconvolto. Quella del papa su Twitter, intendo.
Non si può non ammettere che i tedeschi siano gente piena di sorprese: un giorno ti spiegano i vantaggi di una stufa a pellet e il giorno dopo sono lì a benedire il presidente ugandese per l'introduzione della pena di morte come sanzione per il reato di omosessualità.

Il reato di omosessualità. Ma ci rendiamo conto? Dopo una tale modernizzazione mi sarei aspettato una crociata contro sceneggiatori e attori di web series su YouTube.

Almeno lì avrebbe avuto la mia approvazione.

Questo nuovo Papa comunque comincia a piacermi: prima o poi lo beccherò mentre fa il culo ai valdesi su playstation network.

Il presidente Obama si è comunque dimostrato contrario alla decisione di Benedetto XVI: l'approvazione della legge “Kill the gay Bill” costerà all'Uganda la sospensione degli aiuti in favore di Kampala. E niente playstation.

Tra l'altro, non fa ridere?

No, non il fatto che una nazione in cui se il junk food vuole ucciderti può comprarsi una .44 magnum, ma il nome della legge. “Kill the gay Bill”.

Mi fa pensare al titolo di un film di Tarantino.
Solo che in questo Uma Thurman vuole ammazzare David Carradine perché si è inculato suo marito il giorno prima del matrimonio.
Un'epica battaglia finale a colpi di palline ben-wa.

Cosa ci posso fare? Sono una persona dalla fervida immaginazione.
Ecco cosa avrei dovuto dire allo psicologo infantile.

Voi pensate che il mondo stia finendo, vero? Che pezzo per pezzo le cose si sgretolino, e questo ammasso di atomi senza valore nell'universo sparisca per sempre. C'è un piacere malsano nei vostri conti alla rovescia, ma quando pensate al sipario cosmico che sta per calare sull'esistenza della scimmia, pensate che non potrà essere ora. Perché quando le cose vanno male, possono solo peggiorare. Anelate la fine di una tortura, che come in un tragico scherzo, non arriverà.
Quello che vi spaventa davvero è non lasciare traccia, il salto nel buio pronto ad inghiottirci.
Per questo ci sono tanti #faiunadomandaalpapa, così tante fan page, così tanto orrore ogni volta che restate soli con voi stessi. E dio non voglia che lo siate mai.
Ma lo siete.

Ah, poi ho anche letto che è morto Riccardo Schicchi, ma a tutti coloro che lo piangono dico solo: tranquilli, lo rivedrete. Nel nostro Paese i morti non finiscono nella tomba. Si candidano.

venerdì 7 dicembre 2012

Atrax Robustus


<<Io sono Compè Anansi, 
figlio di Nyame
e Re di tutte le storie>>


Ho lasciato apposta sulla scrivania un intero faldone delle cose che non sono riuscito a scrivere durante questi anni. La pila è piuttosto alta, e l'ho trascinata abbastanza lontana dal bordo quando era diventata troppo pesante per sollevarla senza che crollasse.
A guardarla da seduti sul letto, lo schieramento affilato dei margini è distorto da una complicata orogenesi di fogli di altri formati. Agende e calendari e taccuini da ufficio mutilati per nobile causa di un fugace conflitto a inchiostro, che poi è il capriccio dell'appunto.
Credo che non potrò pensarci domani.
Mi metto in piedi e impugno la mazza da baseball, torcendomi di lato per preparare la battuta della mia vita. Il fianco della libreria cede in uno schiocco sordo che si allunga fin negli angoli dove la luce della lampada non riesce ad arrivare. Cadono frettolosi a decine, per casa editrice e autore, e non sono gli uccelli o i pesci di Guy Montag, ma tessere e mattoni fragili che si spiegazzano sul parquet da quattro soldi. Ancora e ancora e gli scaffali s'impennano con la furia dell'ultimo, innaturale movimento, cadendo dai supporti d'acciaio fin sul fondo del mobile, in un naufragio che fa un baccano d'inferno. Salto all'indietro appena in tempo prima che tutto crolli lungo centosei centimetri per ventotto spiaccicando costole e copertine cartonate, e un'intera collezione dei miei modellini d'areoplano. Resto qualche minuto fermo a guardare la scena. Non è la mazza lo strumento, ma la mia volontà di decidere questa nota incredibilmente inopportuna nel bel mezzo dell'armonia matematica di parole giuste che io non conosco. Sono bastato soltanto io e già non ci sono più. Senza fretta preparo il borsone, con i jeans ripiegati sul fondo e solo una felpa, per far spazio alle scarpe da ginnastica nella busta di plastica bianca, poi lo sistemo vicino alla porta della stanza. Appena lo afferro per le maniglie sento distintamente ogni cosa ammucchiarsi senza ritegno su quella che le sta sopra, sotto, o affianco. Pazienza.
Colpisco dal basso verso l'altro tra le ante, aperte come braccia arrendevoli, e una pioggia nera di grucce si disintegra sopra tutte le camicie e giacche e t-shirt che ho deciso di abbandonare qui. Colpisco finché la vernice non lascia posto alla tragica verità del legno molto più vecchio di quanto credessi, finché la parete interna non regge più e lui si accascia completamente su sé stesso.
Sollevo una danza di schegge trasparenti dalle finestre, nell'atmosfera, devo dire, anche piuttosto coreografica dell'intonaco frantumato che disegna ghirigori attorno alla lampadina dell'abat-jour.
Una volta finito poso delicatamente la mazza a terra e faccio un giro su me stesso.
Arrivo alla porta, riprendo il borsone, mi giro a guardarmi indietro per qualche secondo, chiedendomi se non ci sia qualcosa che dovrei cercare di recuperare, fra le cornici e la scatola delle lettere, che si sono srotolate in un volo di gabbiano quasi fino a me, come se tentassero di chiamarmi per l'ultima volta. Poi esco in silenzio e chiudo la porta senza spegnere la luce. Passo dal bagno, tolgo il cellulare di tasca e lo butto nel water. Inzuppandomi una manica lo spingo più a fondo possibile, poi tiro lo scarico. La tazza borbotta di disappunto e non aspetta ad erompere in un urlo soffocato da un conato d'acqua, che si solleva come se ci avessi lanciato un'incudine. Per lo spavento finisco contro le piastrelle, ma poi mi affretto ad uscire perché il pavimento comincia ad allagarsi.
Attraverso il corridoio spento, passo dalla cucina. Lei è ancora legata.
Quando accendo la luce punta gli occhi sbarrati su di me ma non dice niente. Il bavaglio è ben stretto tra i denti.
La tuta da ginnastica è fradicia di sudore, forse per le imposte chiuse in pieno luglio.
Mi guarda, la guardo. Tende forte i lembi di tessuto che le assicurano i polsi alle gambe del tavolo senza emettere un lamento. Il rumore solitario del tavolo che batte sul pavimento mi ricorda quello di denti che si chiudono. Sul piano cottura, c'è ancora il barattolo con il ragno.
È un barattolo di quelli usati per le marmellate, con l'aracnide che saggia senza sosta l'interno delle pareti pulite. Le zampe fanno tic tic tic.
Poso il barattolo per terra, accanto al tavolo, abbasso la cerniera della sua giacca, le sollevo la maglietta. Ha la pancia chiara e piatta, in controluce spruzzata da una peluria appuntita che disegna un vortice verso il basso. Lei non mi guarda come se pensasse che la voglia stuprare.
Prendo il barattolo con il ragno e lo tengo sollevato per qualche attimo.
<Atrax Robustus> scandisco <Uno dei ragni più aggressivi al mondo. Viene dall'Australia. Nessuno riesce a spiegarsi perché il veleno di questo aracnide sia più efficace sulle scimmie che sulle sue prede naturali>.
Picchietto l'indice sul vetro.
<Sai cosa fa? Non lo sai? Te lo dico io. La tossina inoculata da un morso, e non è detto che morda solo una volta, apre il canale ionico del sodio, determinando un'attività neurale più intensa del normale> Sembra che stia leggendo un prestampato.
<Già pochi secondi dopo il morso il dolore diventa insopportabile. Prurito, irritazione, poi arrivano le prime contrazioni muscolari involontarie> svito metodicamente il coperchio. L'animale se ne sta buono in un angolo, aspettando come madre natura gli ha insegnato.
<Vertigini, nausea, lacrimazione profusa. La temperatura del corpo si alza, l'edema polmonare si fa più consistente. In genere anche se si sopravvive alla crisi, che dura circa tre ore, il rischio di morire permane per sei giorni>. Resto in silenzio ancora per qualche secondo, lei respira forte con gli occhi così fissi e sporgenti che sembra le siano scomparse le palpebre.
Capovolgo il barattolo e lo tengo sospeso sopra al suo ombelico.
Il ragno ci cade dentro senza errori. Butto il barattolo a terra, raccolgo il borsone e torno il corridoio. Dalla cucina arriva un piagnucolare attutito.
Infilo la chiave d'ingresso nella parte interna della porta, forzandola fino a deformarla completamente nella serratura. Il metallo segue la mia mano come una ragazza che gioca a fare la difficile, appena uno stridio.
Chiamo l'ascensore, richiudo la porta alle mie spalle. Per le scale fischiettano Tutta mia la città: le note scompagnate fanno a cazzotti con quelle del tg serale dall'appartamento di qualcuno che cena già a quest'ora.
Le porte si aprono con un rollare di cuscinetti a sfera su un piccolo binario. Ding!
Nella cabina c'è una coppia di anziani: lei ha uno yorkshire al guinzaglio che mi guarda con la lingua di fuori e la testa infiocchettata di rosa.
<Parte?> mi chiede il vecchio senza sorridere, approfittando del tremore del parkinson per indicare il mio borsone con la testa.
<Sì> sospiro io come se il bagaglio fosse molto più pensante di quanto non sia in realtà, mentre scivolo in mezzo a loro.
<Tutti al piano terra?> domando con un'allegria che sembra forgiata in anni di lavoro ad un villaggio vacanze.
<Tutti al piano terra>, chioccia la vecchia mostrando la dentiera.
<Molto bene>.

domenica 4 novembre 2012

Ti Con Zero


Un punto
un segmento
un raggio equidistante dal centro del cerchio
in cui mi trovo adesso
cioè un momento
una porzione
una frazione di tempo
un pezzo
come se parlassi di piombo o cemento
tanto il tempo è quello
uno strumento di cui non ho controllo o senso
a cui mi arrendo
col calendario sulla porta e l'orologio al polso
posso anche farne un blocco
e portarmelo al collo
lo consumerò quando avrò tempo
in tasca ho ancora minuti di martedì scorso
“cara devo andare al lavoro, corro!”
ci sarà tempo per consumare questo tempo che ho raccolto
per farci un disegno,
un ingegno,
un racconto
chiusi nel recinto dell'opportuno
del “mai troppo”
del “mai quando voglio”
vado in ufficio, avrò tempo al ritorno
per ora mi siedo al decimo piano del mondo
è l'undici settembre duemilauno
ora locale otto

lunedì 15 ottobre 2012

Neanche il tabacco


Allora oggi è successo che sono tornato a casa e avevo delle idee precise, delle idee tipo mettere a posto la stanza, anzi per prima cosa fare la pipì, poi mettere a posto la stanza, mandare una e-mail ad un professore, poi fare delle altre cose che non mi ricordo.
Queste altre cose che non mi ricordo è perché poi mentre scrivevo l'e-mail io ormai c'ho il vizio quasi compulsivo, come direbbe mio padre, di controllare Facebook. Allora rispondo al telefono, è Giulia, scrivo la mail, rispondo al telefono, è mia madre che vuole sapere se piove a Roma, scrivo la mail, apro Facebook.
Allora cos'è successo. È successo che su Facebook c'è questo ragazzo, un ragazzo che io veramente non è che ci avessi mai fatto più di tanto caso, cioè uno di quelli che ce li hai tra gli amici per un motivo o per l'altro che spesso con l'amicizia ben poco ha a che fare, allora c'è questo ragazzo dicevo, che ogni tanto vado a leggere se scrive dei pensieri, delle cose interessanti, perché a me è sempre sembrato uno molto sveglio e attento, forse anche di quelli che lo sanno di esserlo, svegli e attenti dico, e allora un po' se ne approfittano, ché poi tu chi sei per dirgli di non approfittarne, nel mondo di quelli che non sono né svegli né attenti, ma non perché devono poi fare i poeti, anche solo così, per giovinezza.
Insomma leggo quello che ha scritto questo ragazzo oggi, e ha scritto delle cose molto belle, molto intelligenti e vere, che ad usare queste parole per spiegarvi io già un po' vorrei farvi capire quanto mi sono sentito piccolo a stare lì a fare l'analisi delle parole, a vedere come erano state scelte, il ritmo e c'era tutta questa armonia crescente che ribolliva su su però con una lucidità che non è che te l'aspetti, a diciassette anni o giù di lì, se ripenso a quello che scrivevo io.
Era una cosa riguardo quel bambino che vicino Padova è stato trascinato via dalla polizia in una volante, davanti alla zia e agli amici, avevo letto un articolo sul giornale e poi altri commenti e pensieri, tutti uguali, giorni prima, e mi era venuto solo questo grande senso di niente che non sapevo bene cosa pensare come quando uno ti dice di tenere in mano una cosa un attimo e tu hai paura di romperla e allora stai lì fermo ad assicurarti di sentirla sempre tra le dita.
Ecco, poi a me la gente dice che mi svaluto, che mi avvilisco, che se scrivo bene, dice la gente, non è che un altro non può scrivere bene e non è che tutto sia una gara e poi io non scrivo più, no, è successa in realtà un'altra cosa, che io ho capito che questo ragazzo aveva dentro un fuoco, come ce l'hanno tutti, ma forse più forte, o più luminoso, e con le mani era riuscito ad irraggiare tutto intorno fino a me e quando me ne sono accorto non sono riuscito a fare più niente, mi sono dimenticato, menomale che avevo già fatto pipì e messo in ordine la stanza e inviato la mail, sono riuscito solo a scrivergli “bravo” e altre cose così. Cioè il punto è che secondo me ogni tanto è bello sentirsi piccoli o meravigliati di qualcuno e forse pure un po' invidiosi perché capisci delle cose che a dirle a parole certi sono bravi e vedi che magari hanno letto molto più di te, e tu invece avevi solo provato questo grande senso di niente e avevi altro da fare che scrivere. Insomma mi è piaciuto molto sentirmi in questo modo, che uno spera di non sentirsi mai, alle volte mi piace, e non ho fatto più nulla. Neanche il tabacco, ho aperto.

domenica 7 ottobre 2012

Assaggiare il nero


<<Sonno. Queste piccole porzioni di morte.
Quanto le odio.>>
Edgar Allan Poe

Warren Zevon è una rockstar. Debuttò sulla scena musicale nel 1969, ma il successo arrivò per lui solo dieci anni dopo.
Il disco con cui si rese noto al pubblico si chiamava Warren Zevon.
La traccia del disco Warren Zevon, della rockstar Warren Zevon, che ebbe maggior successo si chiama I'll sleep when I'm Dead.
La radio questo non lo sa. La radio è una macchina. Sta ferma, riflette la luce della lampada da tavolo come il guscio di un coleottero. Un insetto di plastica nera con le viscere di rame. La radio ronza senza comprendere
So much to do, 
there's plenty on the farm
I'll sleep when I'm dead
Saturday night I like to raise a little harm
I'll sleep when I'm dead 
La mano, quella è viva. Ha i gesti misurati del ragno. Prende la carta di giornale, una singola striscia, la solleva fino alla scodella. Quella finisce quasi del tutto in una mistura di acqua, gesso, colla. Beve, viene tirata su.
Dalla striscia, la mucillagine goccia pigramente nella scodella. La mano si scuote, sembra tenere un pesciolino appena pescato. Applica la striscia ancora umida, ci preme sopra la stecca di un ghiacciolo. Il legno rimane incollato.
Lei si chiama Kristen Parker. Il volto tracciato dalla penombra racconta sedici anni di bellezza nordamericana. L'oscurità lo lambisce appena, si ritira dietro l'attaccatura dei capelli senza sfiorare la curva morbida degli zigomi.
Il buio conosce altre vie, e le si è insinuato dentro la nuca. Ha premuto, sin ad arrivare dall'altra parte, scavandole un fossato di occhiaie che inghiotte il bianco della pelle. Nel pozzo fondo delle iridi la luce ha poco più che un guizzo.
Tutto il resto, dalle spalle in giù, è immerso nella vestaglia. Il cotone le cade addosso come il silenzio della stanza, indifferente alle parole di Warren Zevon.
La stanchezza è un'infezione che le fa girare la testa. Non la sta ammaliando, non le lancia la risata suadente dall'altra parte del corridoio della coscienza. Le tira giù la fronte in un anelito disperato.
Dormi.
Non può. Con sforzo titanico solleva la volta dei sogni che le preme sul cranio. Serve più rumore, abbastanza da coprire i pensieri. Ruota la manopola del volume sulla radio, e il suono brulica su ogni cosa.
Well, I take this medicine as prescribed
I'll sleep when I'm dead
It don't matter if I get a little tired
I'll sleep when I'm dead
Può prepararsi da sola il tempo di cui ha bisogno. Eccola, la medicina. Il cucchiaino che tintinna in un barattolo di caffè, uno sfarinarsi amaro sulla lingua. Diet Coke, un sorso, tutto viene trascinato giù con un singulto. Lo zucchero le brucia la gola: nero su nero che scivola dove il corpo abbandona la luce. Giù per lo stomaco cieco la mistura di Galeno.
Un'altra striscia di carta si appiccica accanto alla precedente.
Gioca a braccio di ferro con sé stessa. Il sonno rimonta in una marea che si infrange dietro gli occhi semichiusi. Non adesso. Nessun dubbio amletico, morire o dormire: qui la simmetria dei termini è così perfetta da darle i brividi.
La porta della stanza si apre, e come ad un segnale a teatro ogni comparsa decide di ritirarsi dietro le quinte. Il buio, il sonno, ogni cosa fluttua in un punto della stanza lontano da lei, come a volersi rendere estranea ai fatti. Non c'è niente: solo una ragazza in vestaglia seduta al tavolo.
Soltanto la radio continua a gracidare stupidamente
I'll sleep when I'm dead
So much to do, there's plenty on the farm
I'll sleep when I'm dead
Saturday night I like to raise a little harm
I'll sleep when...
Elaine Parker spegne la radio con uno scatto rabbioso del polso. Warren Zevon tace.
Lei si erge altera. Il frutto maturo della femminilità, dipinto di seta blu. Il tessuto le carezza i fianchi, è una lingua audace che dal seno le sfiora le caviglie.
“Ma sei matta? Sveglierai tutto il vicinato!”
Kristen fa finta di non sentire, o forse non sente davvero. I suoni e il loro significato arrivano in tempi diversi. Gli occhi sono tizzoni.
“Ciao mamma”
“Non mi ciaomammare. Che ci fai ancora in piedi? Sono le una passate”
Se c'è una virtù innata ad ogni figlio adolescente, è la lusinga. Far leva sul punto più debole.
“Pensavo di aspettarti”
L'istinto materno ammorbidisce i tratti del volto “Beh, adesso sono a casa, così puoi andartene dritta a dormire. Forza, angelo”.
Nessun angelo, dove il buio è più profondo del cosmo in cui si dice abbia sede il regno dei cieli. Meglio un'altra bugia.
“È tutto okay, davvero. Non sono stanca”.
Elaine taccheggia  fino al letto, scosta la coperta da sotto i cuscini
“Kristen, non incominciare. Lo sai quello che ha detto il tuo strizzacervelli...” sospira.
“È pieno di stronzate” si imbroncia lei.
Elaine rimane in piedi accanto al letto “Non ho intenzione di lasciarmi coinvolgere in una discussione con te, dannazione. Non stanotte. Adesso mettiti a letto”.
Mettersi a discutere? Per cosa, poi? Kristen stessa non riesce ad afferrare bene quello che vorrebbe spiegarle. Il materasso la accoglie carico di promesse. Elaine va verso la porta, avvicina l'indice all'interruttore della luce.
Dal fondo della stanza giunge una flebile supplica
“Mamma! Faccio ancora quei sogni orribili!”

Piccola nota a margine.
Quando il gruppo trash-metal Pantera realizzò uno dei suoi brani più famosi, Five Minutes Alone, il batterista della band, Vinnie Paul, spiegò in un'intervista da dove fosse venuta l'intuizione che aveva fatto nascere il pezzo.
Durante un live in California il cantante del gruppo, Phil Anselmo, aveva avuto una lite con un ragazzo del pubblico, e all'uscita del concerto, il padre del giovanotto aveva detto che se avesse avuto cinque minuti da passare da solo con lui gli avrebbe spaccato la faccia.
Per tutta risposta Phil Anselmo aveva detto che se lui avesse avuto cinque minuti da passare da solo con l'uomo, avrebbe dato fondo ad una serie di indicibili torture che aveva in mente per quello stronzo borioso. Dagli insulti che si erano lanciati aveva preso vita il pezzo.
Le cose non stanno così.
Phil Anselmo era un eroinomane ed un alcolizzato. Dopo un concerto andò in overdose, e fu solo grazie ad un tempestivo intervento dei medici del suo staff che riuscì a sopravvivere, ma per cinque minuti, il suo cuore e il suo cervello si fermarono completamente.
Non fu esattamente come dormire: Phil sprofondò in un luogo che era più in là del sonno, mosse i passi oltre una linea di confine che separa il nostro mondo da un altro, dove non c'è spazio nemmeno per la mente. Era rimasto cinque minuti da solo. Da solo per davvero.
Era lì che Kristen avrebbe voluto rifugiarsi.
Ma la nostra storia ha luogo nel 1987, Phil Anselmo è appena entrato a far parte del gruppo di Arlington. E tutto questo, Kristen non può saperlo.

mercoledì 29 agosto 2012

Puntuale come un treno


Undici e cinquantatré, dice il biglietto che ha fatto mia madre. Saranno state le undici meno venti, ero ancora a casa, Sbrigati mi fa mia madre, e poi Di sicuro lo perdi il treno stavolta, è inutile anche che ci andiamo in stazione, mio padre, che è entrato mentre mettevo il computer nella valigia e avevo addosso soltanto i jeans. Mi chiedo come possa essere così rassegnato uno che a vent'anni leggeva Lotta Continua. Mia madre mi saluta dal garage quando usciamo. In macchina non parliamo molto, la radio è accesa, al GR2 dicono che Holland è il nuovo presidente francese, io penso Ecco che ora comincerà a menarmela con la storia che devo studiare, che è rimasto meno di un mese prima degli esami, e invece mio padre non dice niente, solo Pensavo avrebbe vinto un'altra volta Sarkozy, perché in tempi di crisi la gente tende a chiudersi anche ideologicamente, a votare la destra. In Grecia hanno votato un sacco il partito neonazista, dice ancora, che tempi brutti che viviamo. Io dico sì sì e intanto penso che dovrei studiare, appena torno su, ché mancano meno di venti giorni all'esame di microeconomia e mi sale quest'ansia sottilissima in fronte.
Parcheggiamo, tiriamo fuori le valigie dal portabagagli, mio padre mi racconta di quando tornava all'università e mia nonna, sua madre cioè, gli riempiva le valigie di roba da mangiare, e ancora non c'erano i trolley e lui s'incazzava, ché doveva fare tre o quattro viaggi per salire una alla volta quelle valigie pesantissime che portava sotto le braccia, sollevandole, e non gliel'avevano mai rubate, anche se le lasciava nella tromba delle scale del suo palazzo e stava al quarto piano, e poi ride. Rido anch'io perché me lo immagino proprio, con i capelli lunghi e tutte quelle valigie e i pacchi incartati e legati con lo spago.
Anche se non dovevamo farcela, sono le undici e mezza, invece. La stazione è silenziosa, c'è così poca gente che sembra che si conoscano tutti per nome. Carrozza 5, dice il biglietto, vado alla Carrozza 5, porto subito su le valigie, Mettila coricata, dice mio padre, sennò così cade, e allora la metto coricata, poi la tiro di nuovo su perché mi sembra occupi meno spazio nel vano, Mettila coricata, dice un'altra volta mio padre, allora la metto un'altra volta coricata e la lascio così. Posto 41 dice il biglietto, allora vado al posto 41, con finestrino perché mia madre chiede sempre il posto con finestrino. Metto il borsone nella cappelliera, lascio la tracolla sul sedile, scendo dal treno.
Mio padre è sulla banchina, davanti alla porta della carrozza. Parliamo di Monti, Monti, dice mio padre, tutti lo criticano, intanto l'Italia non è fallita, il sistema delle banche è un sistema mondiale che controlla tutto, non è facile spezzarlo per sistemare la situazione in Italia, dice, e dice anche che forse invece che tutti questi economisti servirebbe qualcuno che ragiona semplicemente come un buon padre di famiglia, tipo quel Bondi che quando la Parmalat era fallita è riuscito a risistemarla un po', e alla fine non era mica un economista, era laureato in chimica. Io dico sì sì e penso che a Lecce potrebbero chiudere le porte del treno senza avvisare e farlo partire con la mia valigia coricata dentro, il borsone e la tracolla con le cuffie che ho rubato a mia sorella perché le mie si sono rotte. Parliamo un altro po' di Holland. Mi chiedo come possa pensare certe cose uno che votava i Marxisti-Leninisti, a vent'anni. Mi dà due baci sulle guance, mi dice Chiama la mamma quando arrivi a Roma, salgo sul treno, mi siedo al posto 41, con finestrino. Resto dieci minuti a guardare mio padre che guarda il treno dalla banchina, più avanti c'è una famiglia di gente un po' così, di quella gente che fa delle grandi lacrimate anche se uno sta andando all'università, sono tipo quattro o cinque persone, mettono le mani su un finestrino un po' più avanti, parlano così forte che li sento da qua. Partiamo, mio padre sta un po' più indietro, mi fa ciao ciao con la mano, la stazione scompare. Metto le cuffie, metto le cuffie con i Gazebo Penguins.

Ho perso il tram delle sei.
Ho perso il tram delle sei.
Ho perso il tram delle sei.
Ho perso il tram delle sei.
Con i soldi della spesa
Comprerò un po' di fortuna
Non credo che tornerò.
Non credo che tornerò.
Non credo che tornerò.
Non credo che tornerò.

Penso che ho perso di vista il rap, che non ho idee buone per dei pezzi, che non mi vengono dei bei giochi di parole per farci un testo che valga la pena registrare. Ho messo il rap fuori fuoco, ho messo lo studio fuori fuoco, scrivere scrivo pochissimo, però leggo molto di più. Sono uno che fa le cose una alla volta, io, quando studio divento una specie di capra, riesco a parlare solo delle cose che sto studiando, il resto zero, i libri, Holland, fare il cretino con qualcuna. Poi mi metto ad ascoltare il rap e in tre mesi scrivo quattro pezzi, due anche molto belli, e non leggo più niente, sto dei giorni ad ascoltare beats di Dj Premier. Dal finestrino vedo una specie di fabbrica con le pareti blu, forse metalmeccanica, su un lato c'è scritto “Stab 2” e ci metto un po' a capire che sta per “Stabilimento”, perché istintivamente il mio cervello associa questa scritta di plastica gialla al verbo inglese “to stab”, pugnalare. Voi l'avete un po' pugnalato, questo posto, non morto, però ferito sì, che si trascina.
Mi addormento.
Mi sveglio, ho il libro di Paolo Nori sul tavolino finto legno, c'è una ragazza davanti a me che anche lei ha lasciato un libro sul tavolino finto legno. Quando sono arrivato al mio posto 41 avevo trovato solo il libro, un libro grande, di quelli che gli amici li vedono e dicono Ma come fai a leggere libri così grandi, Eh, rispondi tu, mi piace leggere, e poi invece lo lasci a metà. La ragazza mangia un panino, allora mangio anch'io un panino perché sono quasi le 2, uno dei panini enormi che mi ha fatto mia madre prima di partire, nel vagone mangiano tutti, anche la signora tedesca che sta affianco a me e mi guarda male perché con la carta stagnola faccio rumore, però poi lei parla con una che sta seduta dall'altra parte del corridoio in tedesco ad alta voce, con contegno davvero molto poco tedesco e ride come per dire Menomale che questi stronzi non capiscono niente di quello che diciamo, amica mia. Prosciutto cotto e certosa, lo mangio tutto senza bere perché ho un po' d'acidità di stomaco, in questi giorni ho mangiato un sacco, mia madre ha cucinato per un reggimento e ho dovuto mangiare tutto io, per fortuna che cucina benissimo e ha la scusa di dire che sono sempre magro Saranno tutte quelle sigarette che fumi, ma non ti rendi conto che ormai non fuma più nessuno?
È fatta così mia madre, una che ti prepara spaghetti alle alici e budino di cioccolato e poi prenota il posto 41 con finestrino, nella Carrozza 5. Leggo un po', mi riaddormento.
Mi sveglia una voce maschile, registrata, dice Chi sceglie Trenitalia sceglie di viaggiare con comodità, e allora mi ricordo che sono almeno tre ore che non muovo le ginocchia, perché non vorrei che la ragazza seduta davanti, che ora legge il libro, pensasse che le stia facendo piedino. Muovo un po' le ginocchia, sento anche una specie di puntura lombare che galleggia nell'acidità di stomaco Comodità un cazzo, vorrei dire, però penso che secondo me quello che registra i messaggi in filodiffusione sui Frecciarossa è uno che dopo che l'hanno pagato, a casa guarda il figlio piccolo negli occhi e dice Mi dispiace, dice proprio così, Mi dispiace, e il figlio rimane con una macchinina in mano e lo guarda zitto, poi lui va in camera e si stende un po'. Preferirei non dover mai registrare messaggi in filodiffusione sui Frecciarossa o Frecciargento o Treno Notturno con Vagone Ristorante. Mi riaddormento, spero di non vomitare sul treno sul tavolino finto legno.
Mi sveglio un po' disordinatamente, il treno si ferma, la signora tedesca scende con l'amica e salgono delle altre persone, una ragazza bionda alta con il fisico di quelle che fanno fitness da almeno cinque anni, che si siede al posto della signora tedesca di fianco a me, posto 40, corridoio. Io faccio finta di leggere, ma sto per finire il libro e finire un libro su un treno Lecce-Roma Termini delle undici e cinquantatré non è cosa da fare assolutamente, quindi guardo questa ragazza che tira fuori un Mac Book dalla borsa, lo poggia e lo accende e non ho mai visto un Mac Book accendersi, vedo solo gente con Mac Book che preme un tasto e quello zam, salta su immediatamente come per dire Son pronto, Signore, lo vede come son più veloce di tutti quegli altri computer da pezzenti, dice e io penso Ma vaffanculo te e chi ti usa.
Toglie un cd dal Mac, mette il dvd di Bianca, Nanni Moretti e io penso Ma guarda un po', perché Nanni Moretti non l'ho mai guardato troppo, mi sembra una persona un po' sopravvalutata, però sbircio lo stesso. Lei guarda il film da un punto verso la fine, con le cuffie, io guardo Nanni Moretti che muove la bocca e fa fare degli esercizi di ginnastica a certi ragazzini, poi leggo davvero.
Dopo un po' sbircio di nuovo, il film è finito, lei mette a posto il dvd nella custodia e il cd nel computer, apre una cartella di documenti, apre anche i documenti, li scorre rapidamente, certi sembrano email, certi racconti e riesco pure a vedere qualche titolo tipo Mare o Luna di Notte e sono dei titoli così brutti che vorrei riprendere a leggere il libro di Paolo Nori, invece vedo addirittura che in uno di questi racconti ha scritto due volte l'aggettivo Folle, così “folle folle” e sembra una canzone di Mina. Chiude i documenti, apre iTunes senza mettere su la musica, anzi le cuffie le toglie proprio, apre anche la cartella Immagini, poi un Nuovo File di Scrittura.
Come fai a scrivere in una pagina ridotta a quadratino di pochi centimetri sul lato dello schermo? Come cazzo fai, dall'altra parte vedi iTunes, le tue immagini, lo sfondo del desktop con la tua foto mentre sbuffi fumo del narghilé al sole. Come cazzo fai a scrivere? Scrivere è come andare al cesso. Poi parlo io che ultimamente mi appunto le cose sul cellulare, pensa te, ma quando scrivo ho ben la decenza di spegnerlo poi il cellulare, di scrivere a casa, con la pagina bianca tutta aperta davanti, come se fosse vera, aperta come una giustificazione. Si spreca meno tempo, meno carta, si fa più veloce con le correzioni, e tutto 'sto tempo che risparmio, poi, cosa ne faccio? Mai stato bravo ad amministrare grandi capitali temporali. E tutto quest'astio immotivato poi, magari è una che scrive benissimo, sta andando a Roma a ricevere un premio, rimanici tu, che ormai quando scrivi non ascolti più niente, nemmeno i consigli, ma comunque quell'icona, quell'icona vorrei chiudergliela e dirle Impara a scrivere, piuttosto, vorrei dirle proprio così.
Arrivo previsto, diciassette e venti, mi rollo una sigaretta, la metto in un angolo della bocca, metto a posto il libro di Paolo Nori, richiudo il mio lato del tavolino finto legno, comincio a vedere dei vagoni fermi ai lati del treno, la Carrozza 5 anche si ferma. La ragazza di un mio amico una volta scrisse su Facebook che un uomo si era buttato sui binari del treno che lei aveva preso per tornare a casa da Torino, e quindi il viaggio aveva raggiunto un ritardo di qualcosa come quattro ore. Un'altra volta un signore seduto di fronte a me aveva chiamato tutto incazzato qualcuno al cellulare per dirgli che il treno faceva cinque minuti di ritardo Lo sai come sono questi delle Ferrovie dello Stato, però poi quando era arrivato il controllore lui non era seduto nemmeno al suo posto e si era dovuto spostare. Io invece ho avuto sempre fortuna, e se il treno faceva anche mezz'ora di ritardo me ne son sempre fregato, e comunque diciassette e venti, scendo dal treno, a Termini c'è della gente che dorme sulla banchina, che ne sa che siamo qui in perfetto orario.
In Italia però non ho mai sentito nessuno dire Puntuale come un treno, chissà perché.  

giovedì 2 agosto 2012

Un lavoro fatto bene


<<Perché noi ammazziamo tutto quello che vediamo!
Lui fa il suo mestiere, noi facciamo il nostro!
E per dimostrargli il nostro apprezzamento per averci dato tanto potere,
noi gli riempiamo il cielo di anime sempre fresche!>>
(Stanley Kubrick- “Full Metal Jacket”)

Il riverbero dorato del sole di mezzogiorno scivolava languido sulla carrozzeria della Chrysler come su una goccia di petrolio, facendo saettare spilli di luce nell'afa densa di polvere.
Il ragazzo che guidava si chiamava Pesce Lesso. Non che fosse un nome vero e proprio, ma come era solito dire Maverick, era meno faticoso che chiamarlo con un calcio in culo come un cane.
A Maverick i cani piacevano, specie quelli un po' selvatici che si trovano ogni tanto a rovistare fra i bidoni fuori casa, con il muso sfregiato dai denti di qualche altro cane o magari di un licaone, però neppure il cane migliore del mondo avrebbe potuto imparare a guidare, quindi aveva preferito prendere con sé questo ragazzo che aveva trovato nell'orfanotrofio di un'altra contea.
Era semplicemente andato lì e se l'era portato via: le pie suore che  si prendevano cura di quell'orda di bambini lerci e indisciplinati non gli avevano neppure chiesto un documento o una credenziale, perché non vedevano l'ora di levarselo di torno.
Il bastardo mangiava e basta, dicevano con parole piuttosto inadatte ad uscire da quelle santissime bocche, e nemmeno sapeva parlare. Ma Maverick aveva visto qualcosa di speciale in quel ragazzino: una docile rassegnazione, la robustezza del miglior cavallo da tiro.
Ed in fondo, anche se non sapeva esprimersi granché bene, gli era tornato piuttosto utile. In poco tempo Maverick gli aveva insegnato a guidare, e gli aveva persino sistemato una specie di pagliericcio nel garage, perché fosse sempre pronto a scarrozzarlo in giro quando gli occorresse.
E non gli aveva mai dato un problema, anzi: sembrava che tra lui e l'automobile scorresse un fluido magico che lo faceva diventare il fottuto dritto più dritto nel raggio di cento miglia, quando si trattava di imparare o percorrere una strada in fretta per qualsiasi motivo.
Pesce Lesso aveva acceso lo stereo su una stazione che trasmetteva successi degli anni Sessanta: l'impianto diffondeva “The ballad of John and Yoko”, e lui portava il tempo battendo la mano sul volante di pelle e smozzicando sillabe incomprensibili, come per completare all'ultimo momento le rime del pezzo, senza variare l'espressione del volto pallido, sul quale spiccavano due biglie simili ad occhi, e le labbra, strizzate tra guance gonfie come palloncini.
Maverick era sul sedile posteriore, esattamente nel mezzo.
Il vento pietroso turbinava nell'abitacolo, muovendo i capelli grigi sulle sue spalle come le tendine di un bar: il sudore gli aveva sciolto tutta la brillantina, che si era poi solidificata il gocce argentate simili a costellazioni sulla pelle della giacca.
Anche Heinrich, sul sedile del passeggero sudava: la T-shirt militare era intrisa di un alone frastagliato che gli si era stampato sul petto come la cartina di una qualche strana penisola, e la luce riverberava sui capelli corti a spazzola, così chiari da sembrare bianchi. Maverick vide che il tatuaggio della svastica nera che aveva sulla nuca era coperto da una patina lucida. Pesce Lesso sembrava non fare caso al caldo e sembrava che il caldo non facesse caso a lui.
<Ragazzi miei, questa è quella che chiamo una bella sensazione> disse Maverick mettendo i palmi aperti sui poggiatesta anteriori. In quella posizione le sue mani, con le dita color cuoio strizzate negli anelli a forma di teschio di corvo, lo facevano sembrare una specie di predicatore battista che stesse benedicendo i passeggeri. Il cappello stropicciato che si era calcato fino agli occhi completava l'immagine.
<Ma questo caldo mi fa scolare tutto trucco, herr Maverick> disse Heinrich voltandosi appena verso di lui: vide che il rimmel gli scendeva sulla faccia, tracciando due linee nere e perfettamente dritte sul profilo della mandibola, come lacrime che si andavano a raccogliere sotto il mento.
Le labbra erano marchiate con un rossetto da geisha, e la barba bionda rasata come quella di un manager di successo.  <Mi servirebbe latte detergente> si lamentò poi fissandosi nel retrovisore. Il rimmel sciogliendosi gli aveva invaso il contorno degli occhi.
 <Non mi riferivo al caldo, Heinrich> lo interruppe Maverick agitando appena una mano <intendo dire che dopo tanti anni nel mio campo lavorativo, si impara a fidarsi delle sensazioni, quelle che possono farti capire da subito se un lavoro andrà bene o meno. E stavolta mi sento meglio che tra le cosce di una puta di lusso>.
Pesce Lesso svoltò immediatamente senza frenare, imboccando un sentiero sterrato che fece sobbalzare la Chrysler come un ottovolante per un quarto d'ora, tra le buche profonde scavate dai trattori e i sassi.
 Affianco al sentiero si stendeva a perdita d'occhio un mare di erba giallastra sul quale si distinguevano, come relitti affioranti, carcasse di Chevy arrostite dal sole e vecchi elettrodomestici.
Maverick abbandonò la testa contro il sedile e chiuse gli occhi finché i freni dell'auto non morsero la ghiaia, quindi aspettò di sentire gli altri passeggeri che scendevano, prima di riaprirli e uscire a sua volta.
Gli piaceva dover lavorare con quelle giornate così luminose: sembrava che Dio in persona gli stesse regalando l'ambiente adatto per trovare ispirazione prima di mettersi all'opera.
Ricordava il sole che gli bruciava la testa, da ragazzino, quando aiutava suo padre e suo nonno a marchiare il bestiame, o a ricondurlo nelle stalle.
Una volta gli avevano fatto scannare un vitello: l'animale scalciava e si dibatteva, e persino in due uomini faticavano a trattenerlo, ma quando Maverick gli aveva messo un braccio attorno al collo si era calmato, come ipnotizzato, tremando appena. Non aveva mai dimenticato quella scena.
L'aveva guardato negli occhi liquidi, grandi come dollari d'argento, e poi gli aveva passato il coltello da una parte all'altra della gola, sentendo il sangue caldo che gli leccava la pelle e le maniche della camicia, il peso dell'animale che si abbatteva sul pavimento di pietra.
“Ora sei un uomo” gli aveva detto suo nonno, battendogli una mano sulla spalla.
Lui aveva preteso che gli lasciassero uno zoccolo.
La casa era una bella villa bianca a tre piani, con un viale lastricato largo quanto un campo da football e punteggiato di piante esotiche. Palme gigantesche creavano un percorso fino al retro.
L'atmosfera era densa del profumo delle magnolie su cui ronzavano gli insetti. Maverick aprì la strada agli altri due, precedendoli a passo lento. Teneva le mani in tasca e fischiettava il motivetto della pubblicità della Miracle Whip. Una volta che furono passati oltre una specie di enorme gazebo che serviva anche da parcheggio per le macchine (Maverick udì il gorgoglio d'approvazione di Heinrich quando sfilarono accanto ad un paio di enormi BMW tirate a lucido), si ritrovarono in un grande spiazzo quadrato di pietra grezza.
Ad un lato sorgeva un forno messicano: un affare tozzo appena sbozzato nella roccia in cui si preparavano le tortillas e tutto quel genere di cose che si possano desiderare dopo un lavoro fatto bene.
Maverick rimase immobile per qualche secondo, fissando il forno e immaginando una tavola imbandita nello spazio occupato solo da uno sparuto gruppo di sedie da bar.
Da vicino si notava subito che la casa era stata abbandonata in fretta e furia: l'infinito mantra delle cicale era immerso nell'odore acre di bottiglie di champagne rovesciate, sughi lasciati sui fornelli, irrigatori aperti da ore. Alcune delle finestre erano rotte come se ci avessero lanciato contro qualcosa da dentro. Maverick sorrise quando notò una scia di calzini, come piccoli cadaveri di gabbiani, che correva dritta verso il cancello; poi si rimise in marcia verso la piscina con Pesce Lesso ed Heinrich che lo distanziavano sempre di qualche passo.
La piscina era una roba pacchiana come solo quella di un truffatore avrebbe potuto essere: un enorme ovale al centro del quale spuntava una fontana bianca con un getto a cupola, ora spenta, affiorante come l'ombrello di una medusa sulle maioliche azzurre da cinquemila dollari al metro quadro. Dall'altra parte di quell'ovale, c'erano un uomo seduto ed un uomo in piedi, uno accanto all'altro.
Non ci voleva un genio per capire chi dei due se la passasse peggio: l'uomo seduto aveva entrambi gli occhi così pesti da poterli a malapena tenere aperti, la testa reclinata in avanti, le labbra tumefatte da cui colava un rivolo di saliva. Il riporto che si era fatto con la gelatina si era spostato dall'altro lato, tutto incrostato di sangue secco come un vecchio pennello lasciato ad asciugare.
Un osservatore giusto un po' più furbo avrebbe anche potuto supporre che l'uomo seduto non si fosse legato alla sedia con del filo di rame da sé, ma che fosse stato proprio l'uomo in piedi, strizzato a malapena in una tuta da ginnastica sudata.
L'uomo in piedi sorrise quando Maverick gli si avvicinò <Mi lasci innanzitutto dire quanto io sia onorato dal poter lavorare con una leggenda come lei, signor Maverick> disse, nascosto dietro la montatura fasciante di un paio di occhiali da sole <spero che quanto svolto da me fin'ora la soddisfi> proseguì, continuando a mostrare la dentatura perfetta come quella di un felino sulla faccia abbronzata.
Maverick fece un'espressione felice che gli spiegazzò il volto in un milione di rughe <Antonio> disse <non avrei mai chiesto di ingaggiarti se non avessi saputo che hai del talento> diede un'occhiata all'uomo legato
<E tu hai più talento per questo lavoro che un toro per ingroppare mucche. Farai strada ragazzo> rise, battendogli una mano sulla spalla.
La poca luce che riusciva ad infilarsi sotto il cappellaccio di Maverick scintillava in due stilettate bianche che rilucevano dai suoi occhi.
<I soldi sono in macchina. Ho detto a Pesce Lesso di lasciare il cofano aperto> aggiunse.
Antonio fece un breve inchino imbarazzato e si allontanò dalla piscina, concedendo appena un'occhiata svogliata a Heinrich che aveva estratto una serie di attrezzi da giardinaggio da un capanno e ora li stava esaminando come un chirurgo. Nel mucchio più vicino a lui c'erano le lame di una falciatrice, del solvente e uno straccio.
Quando Antonio era ormai vicino alla casa, Maverick estrasse una colt dalla cintura di pelle di serpente, con un movimento così fluido da far sembrare liquido l'acciaio della canna e tirò il grilletto.
La bocca dell'arma abbaiò una volta sola, e Antonio si accasciò con un suono di nylon bagnato, come un automa che avesse camminato troppo, facendo staccare il filo dell'alimentatore a cui era legato. Da sotto il suo corpo massiccio si allargava una pozzanghera di sangue scuro e denso come sciroppo.
Maverick rinfoderò la colt, stavolta con calma, e si girò verso all'uomo legato.
<Dovresti sentirti fortunato> gli disse, abbassandosi fino a mettergli le mani sulle ginocchia
<lui contava meno di un cazzo, a differenza di te. È per questo che hai diritto ad un trattamento speciale>.
Se l'uomo non avesse avuto il naso rotto avrebbe potuto sentire l'odore di whisky che filtrava tra i denti snudati di Maverick. La saliva fece delle bolle e gli sgorgò più copiosamente dalle labbra.
<Non sforzarti di parlare> sorrise Maverick sollevandosi, poi si voltò verso Pesce Lesso che smuoveva la terra di un formicaio con la punta di una scarpa.
Una scia nera e brulicante gli si stava già arrampicando su per la gamba, pronta a fare festa con la sua pelle, ma Pesce Lesso continuava a guardare estasiato quello spettacolo come se stesse accadendo ad un altro.
<Quel ragazzo ha proprio il cervello fottuto> commentò Maverick, rivolto a nessuno in particolare.
Da una tasca della giacca estrasse una siringa a cui tolse il cappuccio con i denti, per poi sputarlo nella piscina.
<Ricapitoliamo> fece all'uomo, sedendoglisi sopra e spostandogli la testa di lato <sei un tipo molto furbo di quarant'anni. La furbizia è un'ottima qualità oggigiorno> continuò, affondandogli senza fretta la siringa nel collo.
<E la tua furbizia ti ha portato tanta fortuna. Sei stato artefice del tuo successo, e questo mi piace.
Tristemente la buona sorte è destinata a decadere, prima o poi. Chiamalo karma, yin e yang, universo o come ti pare. Tutto gira, amico mio. Specie quando forzi la mano> concluse, estraendo la siringa vuota e gettandola via.
L'uomo fu attraversato da una specie di febbrile contrazione che mise in tensione il filo di rame, lacerandogli la camicia in più punti <Cos'era quella roba?> chiese sputando parole e frammenti di denti.
Maverick si alzò e sorrise come un ragno potrebbe sorridere ad una mosca.
<Vedi...? Comincia già a fare effetto. Niente di mortale, amico mio, anzi. È quello che ci vuole per tenerti sveglio. Il gentiluomo che ci ha ingaggiati vuole che tu rimanga bello arzillo per tutto il tempo possibile, durante lo spettacolo. E quell'iniezione fa proprio al caso tuo> gli strizzò l'occhio <Così come una robusta colazione è fondamentale per l'inizio di una buona giornata> sorrise, fischiettando il jingle dei Cap'N'Crunch.
<Antonio ti aveva ridotto maluccio, eh? Questi italiani... Non hanno proprio il senso della misura> continuò, guardando Heinrich, che trasportava un secchio per il concime pieno di attrezzi, e lo poggiava pesantemente accanto alla sedia. L'uomo legato non sembrava né molto in vena né in grado di scoprire cosa ci fosse dentro, nella sua situazione. Maverick invece si affacciò curioso sul bordo <Carino. Questi dovrebbero essere ottimi per cominciare... Heinrich, vuoi occupartene tu?>.
<Jawohl> annuì l'altro, leccandosi il labbro superiore.
Maverick si allontanò di qualche passo fino ad avere l'uomo difronte <Ultime notizie. Quel che sta per accadere non ti piacerà, ma è inevitabile. Anche se credo tu sia abbastanza sveglio per capirlo da te.
Così come credo non pregherai che all'ultimo momento pioveranno dal cielo le Forze Speciali, o Robocop o qualche altra cagata del genere a salvarti. Spero che ne sia valsa la pena, per te, di rubare quei soldi>.
Si girò di spalle proprio mentre il ronzio di un trapano a batteria perforava l'aria attorno alla piscina.
Maverick sentì parlare Heinrich con l'uomo legato. <Ora mi serve tuo ginocchio...>
Aveva ancora in mente quel forno messicano, e quanto gli sarebbe piaciuto cucinarci delle tortillas, dopo.
“È il genere di cosa che ci vuole, dopo un lavoro fatto bene” pensò.

mercoledì 20 giugno 2012

Orizzonte


<<Devo apprendere il concetto di riservatezza.
O un giorno mi ritroverò a passare dei guai...>>
Gipi- “La mia vita disegnata male”


Destra e sinistra, moto armonico.
Il mio corpo attraversa l'acqua come se nemmeno si potesse bagnare. È questo il segreto per nuotare senza difficoltà: non fare alcuna resistenza, lasciarsi trasportare. Respiro.
L'acqua è piacevolmente fresca anche se continuo a dare bracciate da almeno due ore. Quando mi fermo per controllare dove sono arrivato il cielo si è annuvolato ancora di più. La luce è una polvere diffusa, come cemento in sospensione, piove disordinatamente dalle sfilacciature dei cumulonembi.
Rimango così, con le braccia perpendicolari al corpo e solo la testa fuori.
Dalla spiaggia non viene più alcun rumore, gli unici occupanti rimasti sono gli ombrelloni, dritti e immobili come in attesa di qualcosa.
Comincio a tornare verso riva senza neppure pensarci.
Ogni tre secondi, ogni volta che riprendo fiato, mi rendo conto di non sentire neppure un suono, sia sopra che sott'acqua.
Nuoto al margine, al confine tra due possibilità: la superficie liquida è l'orizzonte che posso decidere di lasciarmi sopra la testa o sotto i piedi.
Immagino di attraversare correnti calde sui fondali sabbiosi, spingermi dentro abissi d'inchiostro. L'assenza di suoni è la condizione ideale: non c'è alcun bisogno di trovare le parole.
Potrei allontanarmi senza riemergere mai, andare a vivere dentro al relitto di un veliero spagnolo, i bambini che mi indicano sporgendosi dalle ringhiere dei traghetti.
E invece mi rimetto in piedi con una rapidità impacciata, appena l'acqua mi raggiunge le ginocchia; muovendosi, le mie gambe rompono i cerchi perfetti creati dalle gocce che mi cadono dai gomiti, dalla punta del naso, dal mento.
Raggiungo lo zaino, controllo il cellulare. Mi siedo sui ciottoli, avvolto nell'asciugamano blu scuro.
Nessun nuovo messaggio.
Il blu scuro del mio asciugamano è l'unico colore sul grigio della spiaggia. Se qualcuno passasse da qui su di un elicottero, vedrebbe immediatamente questa macchia inopportuna di blu scuro sui ciottoli rotondi e grossi come il palmo della mia mano.
È tutto grigio. La luce che danza sullo specchio irrequieto del mare. L'acqua è grigia.
I frangiflutti, dimenticati sparsi vicino al molo.
Il deposito dei pedalò, dove le signore lasciano i materassini prima di tornare a casa, scrivendo il proprio cognome sulla gomma con il pennarello, non sia mai che l'altra, quella con le unghie da bagascia e il sedere troppo grosso, prenda il loro.
Anche gli ombrelloni sono diventati grigi, perché così compunti come sono, si sentivano in dovere di adeguarsi.
Io sono un po' abbronzato, a dir la verità, ma il grigio non mi dispiace.
Ci sono un sacco di luoghi comuni cretini sul grigio, perché sarebbe un colore morto, immobile, il colore della monotonia. Questo è il grigio del tempo che scivola via dal corpo svuotato dell'estate, quando basta che il vento sia un po' più fresco per stringerti lo stomaco, come se tentassi di afferrare un volo di farfalla.
Prendo una boccata di salmastro.
Sarà un luogo comune piuttosto stupido, ma è anche vero. Le cose vere sono tutte un po' sceme.
Metto gli occhiali da vista, frugo nello zaino. Accendo una sigaretta e sento l'ulcera che mi esplode in una fuoriuscita di nausea all'altezza del diaframma, come lava, mi sfiora sempre con un vago presentimento di irreparabile.
Ho scoperto che l'unica situazione in cui non sento il desiderio di fumare si verifica quando sono a casa, senza fare nulla. Il fumo procede di pari passo con la mia attività, è nemico dei pomeriggi apatici spesi a rileggere i passi dei libri, a controllare le previsioni meteo per la settimana. Se sono inattivo, non fumo.
Se stessi a vegetare per sei mesi, non dovrei avere più grossi problemi, ma mi rimane poco più che una decina di giorni da trascorrere in questo modo.
“Ehi!”
Ha detto proprio così.
Senza che nessuno glielo avesse chiesto.
“Ehi!” così, due volte.
Scritto chiaro sul vago tappeto del vento.
Mi volto e la vedo, appoggiata al muretto sopra alla saracinesca abbassata della gelateria, con quella canottina bianca a righe rosse e i capelli spettinati come una quindicenne.
Non dico niente, chissà da quant'è che mi sta guardando.
Lei sorride e butta in avanti quel mare biondo che le incornicia il volto, allora sorrido un po' anch'io, ma continuo a stare in silenzio. Altro che quindicenne, sono io che ci sto facendo la figura del ragazzino.
“Guarda che non ti conviene stare lì... Tra un po' viene a piovere!” continua, senza curarsi minimamente che qualcuno possa trovare fastidioso il suo tono in quell'ora sonnacchiosa.
Del resto chi altro dovrebbe esserci?
Il vento carica dal mare con più decisione, sento l'acqua gelarmisi addosso.
Guardo in alto, proprio dritto sopra alla mia testa, come per sincerarmi che stia dicendo la verità, restando per qualche secondo ad osservare una nuvola grande quanto un sogno spalancare lentamente la sua bocca grigia, poi torno a ricambiare il suo sguardo. “Speriamo di no!” le urlo di rimando, tenendomi stretto nell'asciugamano, la sigaretta che odiosamente si consuma da sé.
Ovviamente non potevo mancare in una simile situazione di fare un'osservazione tanto idiota. Sopra tutto il paese si agitano quintali d'acqua, vorticando nelle correnti che tra poco li faranno esplodere in una cascata incessante, senza alcuna possibilità di riscatto, ed io spero di no. Il quindicenne sembra proprio aver preso il sopravvento.
Mi tiro su cercando di tener fermo l'asciugamano con le tre dita che la sigaretta mi concede di utilizzare, comunque troppo poche per questo soffio divino che ha animato il telo di spugna, facendogli desiderare di fuggire via dalle mie mani. Si dibatte, mi strattona come un animale impazzito mentre cerca di farsi vela, seguendo le promesse dell'aria. La sigaretta cade, lui d'improvviso si spalanca in un'unica ala di un inopportuno blu scuro, troppo grande per le mie tre dita rimaste ancorate ad un angolo della cucitura. Vola via. Un aquilone stropicciato, che si agita sopra al mare come se volesse fargli il verso. Andato.
Sospiro, infilo la maglietta. Cammino a testa bassa, fingendo di essere concentrato solo a non scivolare su queste maledette infradito mentre faccio le scale per tornare su.
Lei è ancora là, sul marciapiede, con le mani sui fianchi, senza smettere di sorridere.
“Sei proprio uno a cui piace il mare tu, eh...? Con questo tempo restano in casa persino i pescatori” continua squadrandomi divertita come se avessi perso il costume mentre mi tuffavo.
Io non sono mai stato bravo con le frasi giuste: un mio compagno di università mi aveva spiegato che certe donne hanno un atteggiamento infantilmente provocatorio perché cercano un partner da assimilare ad una figura paterna mancata. Mi sento come se stessi imparando ora ad andare in bicicletta, a pensare a certi assiomi della marpionaggine sol perché una donna mi ha rivolto la parola.
La fortuna del dilettante è un'invenzione, tanto più che non appena provo a replicare che, qualunque cosa ci faccia qui, anche lei è in giro con la tempesta imminente, il cielo mi sputa in testa una secchiata di acqua gelida.
Piove.
È incredibile questa pioggia, che cancella persino i profili bianchi delle case, che rende le palme scosse dal vento solo uno stormire indefinito da qualche parte nel mio campo percettivo.
Lei mi tira per la mano, corro alla cieca guidato dallo scalpiccio delle sue ciabatte bianche sul selciato. Ho solo delle visioni turbinose del mattonato grigio, delle buche, delle cartacce disseminate, riesco a cogliere appena un angolo del portico sotto il quale credo stiamo andando a rifugiarci.
La pioggia mi sferza senza pietà, in una raffica kamikaze che mi spiaccica i vestiti addosso. Sembra che non smetterà mai.
“Elisa” dice tendendomi la mano. Ha una mano sottile, appena screziata da qualche ruga, che corre per poco attraverso la pelle chiara. Rimango per qualche secondo a fissare una goccia d'acqua rimasta imprigionata in una ciocca davanti al suo viso, come un gioiello.
Mi esibisco in una stretta su misura per il record di lentezza nelle presentazioni “Massimo” sorrido.
Lei mi fissa per un attimo, poi guarda il velo fitto della pioggia.
“Di solito non è così” dice “vengo qui ogni estate da cinque anni ormai, e il tempo è sempre stupendo. Lo so che sembra scemo da dire, ma questo posto ha qualcosa di... Unico. Qualcosa che ti si radica dentro, appena percettibile la prima volta che te ne vai via, ma che si fa sentire sempre di più man mano che il tempo passa. Torna in un odore, nel colore di una mattina qualunque”
si gira verso di me “Spero non ti abbia rovinato la vacanza”.
Scuoto la testa appena “Veramente io qui ci vivo. Cioè... ci vivevo”.
Vorrei fare una fotografia a questa sua espressione sorpresa, da cucciolo di gatto
“Sono nato qui, però da qualche anno abito a Vicenza” continuo “insegno chimica al liceo”.
Lei ridacchia “Non sembri di queste parti. Quand'ero più piccola credevo che gli uomini del sud non amassero starsene soli sulla spiaggia a fumare. E non sei nemmeno tanto villoso”.
Sbuffo. “Saresti sorpresa di sapere quante sono le cose tremende che si nascondono dietro questi stereotipi. È un po' come scoprire l'omino brutto che muove uno splendido fondale a teatro, e sapere che è un alcolizzato, per giunta”.
Lei ride, di una risata che neppure la pioggia riesce a sciogliere in un turbinare d'acqua.
“Hai ragione, colpa mia” si arrende “però hai avuto un bel modo di dirlo. Io sono di Firenze, faccio la giornalista” mi dice, racchiudendomi tutto dentro uno sguardo azzurro come il cielo qui non è stato mai.
Restiamo in silenzio.
La goccia rimasta imprigionata nella sua ciocca freme per un secondo, poi cade a terra.



lunedì 4 giugno 2012

Gemini


<<Se l'ombre nostre v'han dato offesa
voi fate conto
che v'abbiano colto queste visioni
mentre eravate preda del sonno...>>
William Shakespeare- “Sogno di una notte di mezza estate”

Tac.
<Scacco matto> disse Efebo muovendo il secondo alfiere a una casella dal re. Il suo tono era piatto come la neve che si deposita sul prato.
Phobos non rispose. Si limitò a schiacciare la sigaretta nel posacenere. Il mozzicone spegnendosi emise un suono sfrigolante.
<Vuoi fare un'altra partita?> domandò Efebo disponendo nuovamente i pezzi neri sul suo lato della scacchiera. Phobos scosse la testa.
<No> si schiarì la voce <qualcosa mi dice che vinceresti ancora tu>.
Si erano divisi i pezzi trentatré anni prima. Avevano scommesso che i neri li avrebbe posseduti chi fosse arrivato per primo sull'altra sponda del lago.
Mentre nuotava, Efebo aveva guardato Phobos con la coda dell'occhio ogni volta che tirava la testa fuori per respirare. Lo vedeva schiaffeggiare furiosamente l'acqua come se avesse voluto spostarla per fare più in fretta.
Avrebbe voluto lasciarlo vincere, ma qualcosa l'aveva spinto a continuare, fino a raggiungere il traguardo prima di lui. Un irrisolto senso di pietà.
<Sei sicuro di non voler tenere tu i neri?> Aveva chiesto Efebo, mentre erano ancora distesi a riprendere fiato sulla riva sabbiosa. Phobos l'aveva fissato per qualche istante. Nella luce del giorno che portava la pioggia, un lampo verde era guizzato nel pozzo fondo dei suoi occhi.
<No.> aveva ansimato, spostando i capelli corvini che gli si appiccicavano sulla fronte <No. Hai vinto tu. È giusto che sia così. L'abbiamo deciso insieme>.
Avevano sette anni.
Da allora Efebo non aveva perso al gioco neppure una volta. I pezzi di avorio di Phobos, presto o tardi, venivano decimati dall'armata d'ebano, come denti nella bocca di un vecchio.
A dir la verità, Efebo non aveva mai perso in nulla durante tutta la sua vita, eppure nutriva la sottile convinzione che spesso Phobos si lasciasse sconfiggere apposta.
Forse credeva di tributare sempre nuove vittorie a quei pezzi che gli sarebbero spettati di diritto.
Non gliel'ho chiesto io di scommettere su chi avrebbe tenuto i pezzi neri” rifletté, guardando il fratello.
Phobos, il ventre gonfio strizzato nell'abito, spuntava dalla penombra della stanza come un'escrescenza oscura, un'appendice fisiologica del buio stesso.
Quel volto, un tempo un'unica pennellata di pallore perfetto, era del giallo dei malati fegato. Sotto il cappello stropicciato ostentava gli occhi pesti e il naso deviato di chi ha fatto a botte con uno parecchio più bravo di lui. Tutta la fisionomia di Phobos trasudava un colaticcio lucido che si appiccicava al colletto della camicia e si infiltrava nella cravatta come un'infezione.
Efebo finì di sistemare anche i pezzi bianchi sulla scacchiera e si allungò sulla poltroncina girevole.
Phobos mosse lo sguardo verso la porta dell'ufficio, mentre un'ombra danzava sul panello di plexiglass. Scienza bussò alla porta e affacciò il cranio pelato nella stanza. Efebo emise un soave verso interrogativo.
Scienza si sistemò gli occhiali rotondi sul naso <Un cliente, capo. Dice che vuole parlare con un certo signor Efebo Ephobos>.
Efebo fece cenno di farlo accomodare e si sistemò meglio sul cuscino della poltroncina.
Il cliente era una sagoma nera ritagliata nella luce della sala d'attesa. Il bianco della lampada alogena di Scienza punzecchiò l'oscurità dell'ufficio.
<Il signor Ephobos?> domandò richiudendosi la porta alle spalle <Ho preso appuntamento la scorsa settimana per farmi ricevere>.
Phobos sbuffò ma non si mosse, gettato sulla sua sedia come una montagna di cappotti vecchi.
Efebo sorrise. Il sorriso di Efebo era la lama di un bisturi misericordioso nel buio.
Gli occhi saettavano con riflessi al curaçao, gli unici compagni della camicia, visto che la pelle bruna aveva battuto in ritirata dalla vista. Il gatto del Cheshire.
L'uomo faticò a trovare la mano da stringere, poi si sedette.
<Vede> cominciò <io...>
<È una congiunzione> lo interruppe Phobos, come se la notte l'avesse appena risputato fuori.
<e-Phobos> proseguì <non Ephobos. Phobos è il mio nome. Io sono Phobos>.
L'uomo non sembrò eccessivamente sorpreso da quella comparsa. Le sue palpebre sbatterono con un suono umido un paio di volte, come una macchina che registri un avvenimento e poi lo archivi.
Efebo inclinò leggermente la testa da un lato <Phobos, il mio socio> tacque per qualche istante <mio fratello> aggiunse infine. L'uomo non disse nulla.
Efebo andò per un attimo con la mente alla scritta “Efebo e Phobos” dipinta sul pannello di plexiglass della porta dell'ufficio. Una riga tracciata col pennarello nero, dritta e profonda come un'unghiata, separava la “e” dal nome di Phobos. L'aveva disegnata lui qualche anno prima.
La gente tende a dimenticarsi di me” aveva spiegato.
Forse avrebbe dovuto lasciare far mettere al fratello il nome prima del suo. “Phobos e Efebo”.
Anche se ci fossero stati errori nessuno l'avrebbe notato: avevano lanciato una vecchia moneta per decidere. Testa o croce?
<I miei datori di lavoro ritengono opportuno servirsi della sua agenzia> riprese il cliente, guardando la camicia di Efebo <la vostra agenzia> si affrettò a correggersi.
Phobos strizzò l'occhio al cliente senza alcuna smorfia, come se fosse stato un tic:
in mezzo al colaticcio della faccia, sembrò che il bulbo stesse per sgusciare fuori dall'orbita come quello di un pesce ben cotto.
Efebo rincorse i tasti di un pianoforte invisibile sul bordo della scrivania
<Lei è un Delegato, giusto> computò, lasciando un punto interrogativo in dissolvenza. Il cliente emise un verso di approvazione.
<E lei è molto perspicace> ammise, con l'orgoglio della scelta giusta, mettendosi più comodo sulla poltroncina. Nel buio uno spillo bianco guizzò nuovamente tra le labbra di Efebo.
<Molto perspicace> ripeté schiacciando le parole come frutti dolci
<Efebo molto perspicace. Dovremmo scriverlo sulla porta> concluse, rivolto a nessuno in particolare. Constatazioni oggettive.
Sorridere insieme ad Efebo era come aprire l'ombrello per ripararsi durante un uragano.
<I miei datori di lavoro possono pagare bene> aggiunse il cliente <Le vostre cifre sono prestabilite, ma possiamo anche tener fronte agli extra>.
<C'è un bambino che ha paura del buio> disse Phobos, come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento.
Il cliente vide che parlava puntando il naso sbilenco in un punto imprecisato ai suoi piedi.
<Il bambino non vuole che il padre lo mandi in cantina quando è stato cattivo. La cantina è fredda. Il bambino sente l'oscurità che si raccoglie ai suoi piedi e gli striscia dietro al collo, come un insetto che voglia saggiare la preda. La cantina scricchiola perché è viva> continuò quasi tra sé e sé. Al cliente sembrò di sentire un fruscio in sottofondo, come di un nastro registrato.
<Tempo dopo il bambino non è più solo in cantina. Con lui ci sono sua madre, suo padre, sua sorella. Ma ha ancora paura> Phobos sollevò la testa in direzione del cliente: nonostante il colore degli abiti, era il più visibile nella penombra.
<Il padre dice che devono restare in cantina per nascondersi dagli uomini cattivi. Uomini che urlano e attraversano le strade bagnate di pioggia a passo di marcia. Devono stare in silenzio nella pancia della cantina che è un animale cieco.
Ma il bambino non riesce a spiegarselo>.
Efebo picchettò un'unghia sulla scacchiera per richiamare l'attenzione, ma il cliente continuò a fissare Phobos. Nella penombra ammiccava lo sguardo sgranato di un coniglio davanti al lucido serpente che si srotola e soffia.
<“Sono loro i cattivi”, dice il bambino>
<“Sono loro che dovrebbero stare in cantina”> recitò <Dice proprio così>.
Phobos chiuse piano gli occhi. Il cliente sentì che inspirava profondamente, flettendo la schiena all'indietro. Era come se fosse lui stesso a respirare e muoversi.
<Mi scuso per mio fratello> la voce di Efebo si insinuò nell'aria come miele <a volte dice cose senza significato. È sempre stato un bambino problematico> affermò senza alcuna sfumatura. Un'ottava perfetta nella sala da concerto vuota.
<Era il 1942> replicò Phobos.
<Come ho già detto...>
<1942. A Praga.> insisté Phobos, che era tornato a piegarsi sulla pancia. Sembrava uno scolaretto che si vergognasse di essere rimproverato.
<Io c'ero>.
<Fai silenzio, Phobos> ordinò Efebo picchettando di nuovo con l'unghia su una casella. Nella bianca armonia del tono sembrava essersi appena formata una crepa. Il cliente ebbe l'immagine di una grande massa d'acqua scura che prema sulle pareti di una cupola di cristallo. Gli sembrò di essersi addormentato per qualche secondo, e che solo ora si fosse ricordato del motivo per cui era lì.
Tirò fuori la busta dalla giacca e la fece scivolare verso Efebo.
<Dentro c'è l'anticipo. E le informazioni di cui potreste avere bisogno> spiegò, lievemente affannato. Efebo sfiorò la carta bianca con un dito affusolato.
<Va bene. Accettiamo> sussurrò infine, senza toccare ulteriormente la busta.
Nell'ufficio calò il silenzio.
Il cliente si schiarì la gola <Noi abbiamo lavorato anche con l'Industria del Pop> affermò, quasi senza una motivazione precisa. Sembrava stesse leggendo un prestampato.
<Quelli dell'Industria del Pop fanno venire i brividi anche a me> rifletté Phobos alzandosi dalla poltroncina.
<Portano sempre quelle maschere tutte uguali. Quelle con il sorriso dipinto> continuò, indietreggiando nel punto più buio della stanza. Quando fu inghiottito completamente la sua voce divenne un basso pulsare di suoni ovattati.
<Non ho mai visto qualcuno che l'abbia messa e che sia poi riuscito a toglierla> concluse.
<Io sì> rispose Efebo da dietro la scrivania <ma non era un bello spettacolo>.
Dal buio non arrivò alcuna risposta.
<Dov'è andato?> chiese il cliente. La porta non era stata aperta.
<Mi pare ovvio> rispose Efebo, adagiando ogni singola parola con la cura del pittore
<è andato a ballare il ballo di Madama la Morte. Col sorriso e le scarpe buone...>.
Il cliente fissò per qualche istante il punto da cui la voce di Phobos era giunta per l'ultima volta, poi si alzò e tese la mano a Efebo.
<Credo che le nostre trattative siano concluse>.
Efebo rimase immobile e non rispose. Al buio il cliente, la mano ancora a mezz'aria, sentiva il ritmo regolare del suo respiro.
La lasciò cadere <Arrivederci> si congedò poi, voltandosi verso l'uscita.
A metà della stanza Efebo parlò.
<È il suo primo incarico, vero> disse alzandosi in piedi.
Il cliente non capì se si trattasse di un'affermazione o una domanda <Prego?>.
<È il suo primo incarico> ripeté Efebo con il medesimo tono.
La risatina nervosa del cliente si accartocciò davanti al suo naso <Come fa a saperlo? È una specie di mago o qualcosa del genere?> ironizzò, voltandosi nuovamente verso la scrivania. Affondo di scherno a vuoto.
<Lei non si è mai chiesto perché i Delegati vengono assunti uno per volta> aggiunse Efebo per tutta risposta.
<Le hanno detto che il suo è un lavoro di responsabilità> spiegò, girando lentamente dall'altra parte del tavolo <Anche se, tecnicamente, lei è parte del pagamento>.
Il deserto del tono sembrava aver raggiunto un diesis divertito.
<Cosa sta dicendo?> chiese il cliente. Se avesse avuto uno specchio, si sarebbe potuto congratulare con sé stesso per la perfetta espressione adirata. Aveva l'attitudine della promozione gerarchica.
< Toto,> arabescò Efebo premendo il bottone per accendere il lampadario
<ho l'impressione che noi non siamo più nel Kansas>.
Nell'ufficio illuminato, il cliente spalancò gli occhi e provò a gridare.
Il grido è un riflesso incondizionato pressoché inutile. In tempi remoti, serviva a segnalare una minaccia imminente per l'individuo e quindi una minaccia potenziale per l'intero gruppo.
Ma non c'era nessuno oltre a loro due in quella stanza.
Quando vide la luce accendersi, Scienza alzò il volume della filodiffusione nella sala d'attesa. Vivaldi.
Efebo fece un passo verso il cliente. Il suo collo scattò in avanti una sola volta.
E gli mangiò la testa.

Stacco e...

dissolvenza.


sabato 26 maggio 2012

Starfuck's


“Senza caffè la mattina non riesco a mettere in funzione il cervello”
ecco, bravo, vantati!
godi ad ammettere un tuo grave deficit fisiologico
fai in modo che il tuo uditorio si identifichi
nelle tue personali necessità
risulta simpatico, svagato, affascinante
molto più di me
che ammetto candidamente il perfetto funzionamento
dei miei processi cerebrali sin dal risveglio
che in una miscela di chicchi disidratati e acqua bollente
altro non riscontro se non una gastrite fulminante
la tachicardia
l'intrattabilità
offendendo l'avventore del bar che mi offre un ristretto
l'amico che dopo pranzo prepara l'espresso
e crede che io non sia normale
che i miei gusti siano inaccettabili
specie dalle mie parti
dove rifiutare la tazzina è considerata un'offesa mortale
peggio che sputare nella portata principale
immagino tribunali in cui vengano assolti
stupratori di bambine della scuola elementare
perché hanno gusto nel selezionare la miscela arabica
il killer seriale che realizza cappuccini con sapiente pratica
la convinzione che noi siamo ciò che ingeriamo
fa sì che tu cerchi l'affermazione dell'Io
in un oggetto a te estraneo
un alimento del quale non hai realmente bisogno
ma che rende conscia la persona con cui interagisci
su ciò che preferisci e ciò che lasci
su ciò che ti porta a preferire una marca
piuttosto che un'altra
la birra fresca a quella calda
tracciando una personalità totale che non ti appartiene
ma che ti permette di sentirti bene
vorrei che la ragazza che invito
sapesse quanto mi torturo e mi sforzo per lei
quando le propongo un aperitivo
dello schifo che provo
dopo un assaggio di vino
se io vi uso la cortesia di adattarmi al vostro ambiente
usatemi quella di capire che dopo le libagioni costrette
ho bisogno di un luogo in cui vomitare e defecare contemporaneamente
per carità, sono un ragazzo ben educato
preferisco soffrire all'essere additato e disapprovato
per un caffè zuccherato e poi lasciato
“non è buono? non ti piace?”
renditi perspicace e lasciami consumare
il mio spuntino a temperatura ambiente
a base di acqua minerale