mercoledì 29 agosto 2012

Puntuale come un treno


Undici e cinquantatré, dice il biglietto che ha fatto mia madre. Saranno state le undici meno venti, ero ancora a casa, Sbrigati mi fa mia madre, e poi Di sicuro lo perdi il treno stavolta, è inutile anche che ci andiamo in stazione, mio padre, che è entrato mentre mettevo il computer nella valigia e avevo addosso soltanto i jeans. Mi chiedo come possa essere così rassegnato uno che a vent'anni leggeva Lotta Continua. Mia madre mi saluta dal garage quando usciamo. In macchina non parliamo molto, la radio è accesa, al GR2 dicono che Holland è il nuovo presidente francese, io penso Ecco che ora comincerà a menarmela con la storia che devo studiare, che è rimasto meno di un mese prima degli esami, e invece mio padre non dice niente, solo Pensavo avrebbe vinto un'altra volta Sarkozy, perché in tempi di crisi la gente tende a chiudersi anche ideologicamente, a votare la destra. In Grecia hanno votato un sacco il partito neonazista, dice ancora, che tempi brutti che viviamo. Io dico sì sì e intanto penso che dovrei studiare, appena torno su, ché mancano meno di venti giorni all'esame di microeconomia e mi sale quest'ansia sottilissima in fronte.
Parcheggiamo, tiriamo fuori le valigie dal portabagagli, mio padre mi racconta di quando tornava all'università e mia nonna, sua madre cioè, gli riempiva le valigie di roba da mangiare, e ancora non c'erano i trolley e lui s'incazzava, ché doveva fare tre o quattro viaggi per salire una alla volta quelle valigie pesantissime che portava sotto le braccia, sollevandole, e non gliel'avevano mai rubate, anche se le lasciava nella tromba delle scale del suo palazzo e stava al quarto piano, e poi ride. Rido anch'io perché me lo immagino proprio, con i capelli lunghi e tutte quelle valigie e i pacchi incartati e legati con lo spago.
Anche se non dovevamo farcela, sono le undici e mezza, invece. La stazione è silenziosa, c'è così poca gente che sembra che si conoscano tutti per nome. Carrozza 5, dice il biglietto, vado alla Carrozza 5, porto subito su le valigie, Mettila coricata, dice mio padre, sennò così cade, e allora la metto coricata, poi la tiro di nuovo su perché mi sembra occupi meno spazio nel vano, Mettila coricata, dice un'altra volta mio padre, allora la metto un'altra volta coricata e la lascio così. Posto 41 dice il biglietto, allora vado al posto 41, con finestrino perché mia madre chiede sempre il posto con finestrino. Metto il borsone nella cappelliera, lascio la tracolla sul sedile, scendo dal treno.
Mio padre è sulla banchina, davanti alla porta della carrozza. Parliamo di Monti, Monti, dice mio padre, tutti lo criticano, intanto l'Italia non è fallita, il sistema delle banche è un sistema mondiale che controlla tutto, non è facile spezzarlo per sistemare la situazione in Italia, dice, e dice anche che forse invece che tutti questi economisti servirebbe qualcuno che ragiona semplicemente come un buon padre di famiglia, tipo quel Bondi che quando la Parmalat era fallita è riuscito a risistemarla un po', e alla fine non era mica un economista, era laureato in chimica. Io dico sì sì e penso che a Lecce potrebbero chiudere le porte del treno senza avvisare e farlo partire con la mia valigia coricata dentro, il borsone e la tracolla con le cuffie che ho rubato a mia sorella perché le mie si sono rotte. Parliamo un altro po' di Holland. Mi chiedo come possa pensare certe cose uno che votava i Marxisti-Leninisti, a vent'anni. Mi dà due baci sulle guance, mi dice Chiama la mamma quando arrivi a Roma, salgo sul treno, mi siedo al posto 41, con finestrino. Resto dieci minuti a guardare mio padre che guarda il treno dalla banchina, più avanti c'è una famiglia di gente un po' così, di quella gente che fa delle grandi lacrimate anche se uno sta andando all'università, sono tipo quattro o cinque persone, mettono le mani su un finestrino un po' più avanti, parlano così forte che li sento da qua. Partiamo, mio padre sta un po' più indietro, mi fa ciao ciao con la mano, la stazione scompare. Metto le cuffie, metto le cuffie con i Gazebo Penguins.

Ho perso il tram delle sei.
Ho perso il tram delle sei.
Ho perso il tram delle sei.
Ho perso il tram delle sei.
Con i soldi della spesa
Comprerò un po' di fortuna
Non credo che tornerò.
Non credo che tornerò.
Non credo che tornerò.
Non credo che tornerò.

Penso che ho perso di vista il rap, che non ho idee buone per dei pezzi, che non mi vengono dei bei giochi di parole per farci un testo che valga la pena registrare. Ho messo il rap fuori fuoco, ho messo lo studio fuori fuoco, scrivere scrivo pochissimo, però leggo molto di più. Sono uno che fa le cose una alla volta, io, quando studio divento una specie di capra, riesco a parlare solo delle cose che sto studiando, il resto zero, i libri, Holland, fare il cretino con qualcuna. Poi mi metto ad ascoltare il rap e in tre mesi scrivo quattro pezzi, due anche molto belli, e non leggo più niente, sto dei giorni ad ascoltare beats di Dj Premier. Dal finestrino vedo una specie di fabbrica con le pareti blu, forse metalmeccanica, su un lato c'è scritto “Stab 2” e ci metto un po' a capire che sta per “Stabilimento”, perché istintivamente il mio cervello associa questa scritta di plastica gialla al verbo inglese “to stab”, pugnalare. Voi l'avete un po' pugnalato, questo posto, non morto, però ferito sì, che si trascina.
Mi addormento.
Mi sveglio, ho il libro di Paolo Nori sul tavolino finto legno, c'è una ragazza davanti a me che anche lei ha lasciato un libro sul tavolino finto legno. Quando sono arrivato al mio posto 41 avevo trovato solo il libro, un libro grande, di quelli che gli amici li vedono e dicono Ma come fai a leggere libri così grandi, Eh, rispondi tu, mi piace leggere, e poi invece lo lasci a metà. La ragazza mangia un panino, allora mangio anch'io un panino perché sono quasi le 2, uno dei panini enormi che mi ha fatto mia madre prima di partire, nel vagone mangiano tutti, anche la signora tedesca che sta affianco a me e mi guarda male perché con la carta stagnola faccio rumore, però poi lei parla con una che sta seduta dall'altra parte del corridoio in tedesco ad alta voce, con contegno davvero molto poco tedesco e ride come per dire Menomale che questi stronzi non capiscono niente di quello che diciamo, amica mia. Prosciutto cotto e certosa, lo mangio tutto senza bere perché ho un po' d'acidità di stomaco, in questi giorni ho mangiato un sacco, mia madre ha cucinato per un reggimento e ho dovuto mangiare tutto io, per fortuna che cucina benissimo e ha la scusa di dire che sono sempre magro Saranno tutte quelle sigarette che fumi, ma non ti rendi conto che ormai non fuma più nessuno?
È fatta così mia madre, una che ti prepara spaghetti alle alici e budino di cioccolato e poi prenota il posto 41 con finestrino, nella Carrozza 5. Leggo un po', mi riaddormento.
Mi sveglia una voce maschile, registrata, dice Chi sceglie Trenitalia sceglie di viaggiare con comodità, e allora mi ricordo che sono almeno tre ore che non muovo le ginocchia, perché non vorrei che la ragazza seduta davanti, che ora legge il libro, pensasse che le stia facendo piedino. Muovo un po' le ginocchia, sento anche una specie di puntura lombare che galleggia nell'acidità di stomaco Comodità un cazzo, vorrei dire, però penso che secondo me quello che registra i messaggi in filodiffusione sui Frecciarossa è uno che dopo che l'hanno pagato, a casa guarda il figlio piccolo negli occhi e dice Mi dispiace, dice proprio così, Mi dispiace, e il figlio rimane con una macchinina in mano e lo guarda zitto, poi lui va in camera e si stende un po'. Preferirei non dover mai registrare messaggi in filodiffusione sui Frecciarossa o Frecciargento o Treno Notturno con Vagone Ristorante. Mi riaddormento, spero di non vomitare sul treno sul tavolino finto legno.
Mi sveglio un po' disordinatamente, il treno si ferma, la signora tedesca scende con l'amica e salgono delle altre persone, una ragazza bionda alta con il fisico di quelle che fanno fitness da almeno cinque anni, che si siede al posto della signora tedesca di fianco a me, posto 40, corridoio. Io faccio finta di leggere, ma sto per finire il libro e finire un libro su un treno Lecce-Roma Termini delle undici e cinquantatré non è cosa da fare assolutamente, quindi guardo questa ragazza che tira fuori un Mac Book dalla borsa, lo poggia e lo accende e non ho mai visto un Mac Book accendersi, vedo solo gente con Mac Book che preme un tasto e quello zam, salta su immediatamente come per dire Son pronto, Signore, lo vede come son più veloce di tutti quegli altri computer da pezzenti, dice e io penso Ma vaffanculo te e chi ti usa.
Toglie un cd dal Mac, mette il dvd di Bianca, Nanni Moretti e io penso Ma guarda un po', perché Nanni Moretti non l'ho mai guardato troppo, mi sembra una persona un po' sopravvalutata, però sbircio lo stesso. Lei guarda il film da un punto verso la fine, con le cuffie, io guardo Nanni Moretti che muove la bocca e fa fare degli esercizi di ginnastica a certi ragazzini, poi leggo davvero.
Dopo un po' sbircio di nuovo, il film è finito, lei mette a posto il dvd nella custodia e il cd nel computer, apre una cartella di documenti, apre anche i documenti, li scorre rapidamente, certi sembrano email, certi racconti e riesco pure a vedere qualche titolo tipo Mare o Luna di Notte e sono dei titoli così brutti che vorrei riprendere a leggere il libro di Paolo Nori, invece vedo addirittura che in uno di questi racconti ha scritto due volte l'aggettivo Folle, così “folle folle” e sembra una canzone di Mina. Chiude i documenti, apre iTunes senza mettere su la musica, anzi le cuffie le toglie proprio, apre anche la cartella Immagini, poi un Nuovo File di Scrittura.
Come fai a scrivere in una pagina ridotta a quadratino di pochi centimetri sul lato dello schermo? Come cazzo fai, dall'altra parte vedi iTunes, le tue immagini, lo sfondo del desktop con la tua foto mentre sbuffi fumo del narghilé al sole. Come cazzo fai a scrivere? Scrivere è come andare al cesso. Poi parlo io che ultimamente mi appunto le cose sul cellulare, pensa te, ma quando scrivo ho ben la decenza di spegnerlo poi il cellulare, di scrivere a casa, con la pagina bianca tutta aperta davanti, come se fosse vera, aperta come una giustificazione. Si spreca meno tempo, meno carta, si fa più veloce con le correzioni, e tutto 'sto tempo che risparmio, poi, cosa ne faccio? Mai stato bravo ad amministrare grandi capitali temporali. E tutto quest'astio immotivato poi, magari è una che scrive benissimo, sta andando a Roma a ricevere un premio, rimanici tu, che ormai quando scrivi non ascolti più niente, nemmeno i consigli, ma comunque quell'icona, quell'icona vorrei chiudergliela e dirle Impara a scrivere, piuttosto, vorrei dirle proprio così.
Arrivo previsto, diciassette e venti, mi rollo una sigaretta, la metto in un angolo della bocca, metto a posto il libro di Paolo Nori, richiudo il mio lato del tavolino finto legno, comincio a vedere dei vagoni fermi ai lati del treno, la Carrozza 5 anche si ferma. La ragazza di un mio amico una volta scrisse su Facebook che un uomo si era buttato sui binari del treno che lei aveva preso per tornare a casa da Torino, e quindi il viaggio aveva raggiunto un ritardo di qualcosa come quattro ore. Un'altra volta un signore seduto di fronte a me aveva chiamato tutto incazzato qualcuno al cellulare per dirgli che il treno faceva cinque minuti di ritardo Lo sai come sono questi delle Ferrovie dello Stato, però poi quando era arrivato il controllore lui non era seduto nemmeno al suo posto e si era dovuto spostare. Io invece ho avuto sempre fortuna, e se il treno faceva anche mezz'ora di ritardo me ne son sempre fregato, e comunque diciassette e venti, scendo dal treno, a Termini c'è della gente che dorme sulla banchina, che ne sa che siamo qui in perfetto orario.
In Italia però non ho mai sentito nessuno dire Puntuale come un treno, chissà perché.  

giovedì 2 agosto 2012

Un lavoro fatto bene


<<Perché noi ammazziamo tutto quello che vediamo!
Lui fa il suo mestiere, noi facciamo il nostro!
E per dimostrargli il nostro apprezzamento per averci dato tanto potere,
noi gli riempiamo il cielo di anime sempre fresche!>>
(Stanley Kubrick- “Full Metal Jacket”)

Il riverbero dorato del sole di mezzogiorno scivolava languido sulla carrozzeria della Chrysler come su una goccia di petrolio, facendo saettare spilli di luce nell'afa densa di polvere.
Il ragazzo che guidava si chiamava Pesce Lesso. Non che fosse un nome vero e proprio, ma come era solito dire Maverick, era meno faticoso che chiamarlo con un calcio in culo come un cane.
A Maverick i cani piacevano, specie quelli un po' selvatici che si trovano ogni tanto a rovistare fra i bidoni fuori casa, con il muso sfregiato dai denti di qualche altro cane o magari di un licaone, però neppure il cane migliore del mondo avrebbe potuto imparare a guidare, quindi aveva preferito prendere con sé questo ragazzo che aveva trovato nell'orfanotrofio di un'altra contea.
Era semplicemente andato lì e se l'era portato via: le pie suore che  si prendevano cura di quell'orda di bambini lerci e indisciplinati non gli avevano neppure chiesto un documento o una credenziale, perché non vedevano l'ora di levarselo di torno.
Il bastardo mangiava e basta, dicevano con parole piuttosto inadatte ad uscire da quelle santissime bocche, e nemmeno sapeva parlare. Ma Maverick aveva visto qualcosa di speciale in quel ragazzino: una docile rassegnazione, la robustezza del miglior cavallo da tiro.
Ed in fondo, anche se non sapeva esprimersi granché bene, gli era tornato piuttosto utile. In poco tempo Maverick gli aveva insegnato a guidare, e gli aveva persino sistemato una specie di pagliericcio nel garage, perché fosse sempre pronto a scarrozzarlo in giro quando gli occorresse.
E non gli aveva mai dato un problema, anzi: sembrava che tra lui e l'automobile scorresse un fluido magico che lo faceva diventare il fottuto dritto più dritto nel raggio di cento miglia, quando si trattava di imparare o percorrere una strada in fretta per qualsiasi motivo.
Pesce Lesso aveva acceso lo stereo su una stazione che trasmetteva successi degli anni Sessanta: l'impianto diffondeva “The ballad of John and Yoko”, e lui portava il tempo battendo la mano sul volante di pelle e smozzicando sillabe incomprensibili, come per completare all'ultimo momento le rime del pezzo, senza variare l'espressione del volto pallido, sul quale spiccavano due biglie simili ad occhi, e le labbra, strizzate tra guance gonfie come palloncini.
Maverick era sul sedile posteriore, esattamente nel mezzo.
Il vento pietroso turbinava nell'abitacolo, muovendo i capelli grigi sulle sue spalle come le tendine di un bar: il sudore gli aveva sciolto tutta la brillantina, che si era poi solidificata il gocce argentate simili a costellazioni sulla pelle della giacca.
Anche Heinrich, sul sedile del passeggero sudava: la T-shirt militare era intrisa di un alone frastagliato che gli si era stampato sul petto come la cartina di una qualche strana penisola, e la luce riverberava sui capelli corti a spazzola, così chiari da sembrare bianchi. Maverick vide che il tatuaggio della svastica nera che aveva sulla nuca era coperto da una patina lucida. Pesce Lesso sembrava non fare caso al caldo e sembrava che il caldo non facesse caso a lui.
<Ragazzi miei, questa è quella che chiamo una bella sensazione> disse Maverick mettendo i palmi aperti sui poggiatesta anteriori. In quella posizione le sue mani, con le dita color cuoio strizzate negli anelli a forma di teschio di corvo, lo facevano sembrare una specie di predicatore battista che stesse benedicendo i passeggeri. Il cappello stropicciato che si era calcato fino agli occhi completava l'immagine.
<Ma questo caldo mi fa scolare tutto trucco, herr Maverick> disse Heinrich voltandosi appena verso di lui: vide che il rimmel gli scendeva sulla faccia, tracciando due linee nere e perfettamente dritte sul profilo della mandibola, come lacrime che si andavano a raccogliere sotto il mento.
Le labbra erano marchiate con un rossetto da geisha, e la barba bionda rasata come quella di un manager di successo.  <Mi servirebbe latte detergente> si lamentò poi fissandosi nel retrovisore. Il rimmel sciogliendosi gli aveva invaso il contorno degli occhi.
 <Non mi riferivo al caldo, Heinrich> lo interruppe Maverick agitando appena una mano <intendo dire che dopo tanti anni nel mio campo lavorativo, si impara a fidarsi delle sensazioni, quelle che possono farti capire da subito se un lavoro andrà bene o meno. E stavolta mi sento meglio che tra le cosce di una puta di lusso>.
Pesce Lesso svoltò immediatamente senza frenare, imboccando un sentiero sterrato che fece sobbalzare la Chrysler come un ottovolante per un quarto d'ora, tra le buche profonde scavate dai trattori e i sassi.
 Affianco al sentiero si stendeva a perdita d'occhio un mare di erba giallastra sul quale si distinguevano, come relitti affioranti, carcasse di Chevy arrostite dal sole e vecchi elettrodomestici.
Maverick abbandonò la testa contro il sedile e chiuse gli occhi finché i freni dell'auto non morsero la ghiaia, quindi aspettò di sentire gli altri passeggeri che scendevano, prima di riaprirli e uscire a sua volta.
Gli piaceva dover lavorare con quelle giornate così luminose: sembrava che Dio in persona gli stesse regalando l'ambiente adatto per trovare ispirazione prima di mettersi all'opera.
Ricordava il sole che gli bruciava la testa, da ragazzino, quando aiutava suo padre e suo nonno a marchiare il bestiame, o a ricondurlo nelle stalle.
Una volta gli avevano fatto scannare un vitello: l'animale scalciava e si dibatteva, e persino in due uomini faticavano a trattenerlo, ma quando Maverick gli aveva messo un braccio attorno al collo si era calmato, come ipnotizzato, tremando appena. Non aveva mai dimenticato quella scena.
L'aveva guardato negli occhi liquidi, grandi come dollari d'argento, e poi gli aveva passato il coltello da una parte all'altra della gola, sentendo il sangue caldo che gli leccava la pelle e le maniche della camicia, il peso dell'animale che si abbatteva sul pavimento di pietra.
“Ora sei un uomo” gli aveva detto suo nonno, battendogli una mano sulla spalla.
Lui aveva preteso che gli lasciassero uno zoccolo.
La casa era una bella villa bianca a tre piani, con un viale lastricato largo quanto un campo da football e punteggiato di piante esotiche. Palme gigantesche creavano un percorso fino al retro.
L'atmosfera era densa del profumo delle magnolie su cui ronzavano gli insetti. Maverick aprì la strada agli altri due, precedendoli a passo lento. Teneva le mani in tasca e fischiettava il motivetto della pubblicità della Miracle Whip. Una volta che furono passati oltre una specie di enorme gazebo che serviva anche da parcheggio per le macchine (Maverick udì il gorgoglio d'approvazione di Heinrich quando sfilarono accanto ad un paio di enormi BMW tirate a lucido), si ritrovarono in un grande spiazzo quadrato di pietra grezza.
Ad un lato sorgeva un forno messicano: un affare tozzo appena sbozzato nella roccia in cui si preparavano le tortillas e tutto quel genere di cose che si possano desiderare dopo un lavoro fatto bene.
Maverick rimase immobile per qualche secondo, fissando il forno e immaginando una tavola imbandita nello spazio occupato solo da uno sparuto gruppo di sedie da bar.
Da vicino si notava subito che la casa era stata abbandonata in fretta e furia: l'infinito mantra delle cicale era immerso nell'odore acre di bottiglie di champagne rovesciate, sughi lasciati sui fornelli, irrigatori aperti da ore. Alcune delle finestre erano rotte come se ci avessero lanciato contro qualcosa da dentro. Maverick sorrise quando notò una scia di calzini, come piccoli cadaveri di gabbiani, che correva dritta verso il cancello; poi si rimise in marcia verso la piscina con Pesce Lesso ed Heinrich che lo distanziavano sempre di qualche passo.
La piscina era una roba pacchiana come solo quella di un truffatore avrebbe potuto essere: un enorme ovale al centro del quale spuntava una fontana bianca con un getto a cupola, ora spenta, affiorante come l'ombrello di una medusa sulle maioliche azzurre da cinquemila dollari al metro quadro. Dall'altra parte di quell'ovale, c'erano un uomo seduto ed un uomo in piedi, uno accanto all'altro.
Non ci voleva un genio per capire chi dei due se la passasse peggio: l'uomo seduto aveva entrambi gli occhi così pesti da poterli a malapena tenere aperti, la testa reclinata in avanti, le labbra tumefatte da cui colava un rivolo di saliva. Il riporto che si era fatto con la gelatina si era spostato dall'altro lato, tutto incrostato di sangue secco come un vecchio pennello lasciato ad asciugare.
Un osservatore giusto un po' più furbo avrebbe anche potuto supporre che l'uomo seduto non si fosse legato alla sedia con del filo di rame da sé, ma che fosse stato proprio l'uomo in piedi, strizzato a malapena in una tuta da ginnastica sudata.
L'uomo in piedi sorrise quando Maverick gli si avvicinò <Mi lasci innanzitutto dire quanto io sia onorato dal poter lavorare con una leggenda come lei, signor Maverick> disse, nascosto dietro la montatura fasciante di un paio di occhiali da sole <spero che quanto svolto da me fin'ora la soddisfi> proseguì, continuando a mostrare la dentatura perfetta come quella di un felino sulla faccia abbronzata.
Maverick fece un'espressione felice che gli spiegazzò il volto in un milione di rughe <Antonio> disse <non avrei mai chiesto di ingaggiarti se non avessi saputo che hai del talento> diede un'occhiata all'uomo legato
<E tu hai più talento per questo lavoro che un toro per ingroppare mucche. Farai strada ragazzo> rise, battendogli una mano sulla spalla.
La poca luce che riusciva ad infilarsi sotto il cappellaccio di Maverick scintillava in due stilettate bianche che rilucevano dai suoi occhi.
<I soldi sono in macchina. Ho detto a Pesce Lesso di lasciare il cofano aperto> aggiunse.
Antonio fece un breve inchino imbarazzato e si allontanò dalla piscina, concedendo appena un'occhiata svogliata a Heinrich che aveva estratto una serie di attrezzi da giardinaggio da un capanno e ora li stava esaminando come un chirurgo. Nel mucchio più vicino a lui c'erano le lame di una falciatrice, del solvente e uno straccio.
Quando Antonio era ormai vicino alla casa, Maverick estrasse una colt dalla cintura di pelle di serpente, con un movimento così fluido da far sembrare liquido l'acciaio della canna e tirò il grilletto.
La bocca dell'arma abbaiò una volta sola, e Antonio si accasciò con un suono di nylon bagnato, come un automa che avesse camminato troppo, facendo staccare il filo dell'alimentatore a cui era legato. Da sotto il suo corpo massiccio si allargava una pozzanghera di sangue scuro e denso come sciroppo.
Maverick rinfoderò la colt, stavolta con calma, e si girò verso all'uomo legato.
<Dovresti sentirti fortunato> gli disse, abbassandosi fino a mettergli le mani sulle ginocchia
<lui contava meno di un cazzo, a differenza di te. È per questo che hai diritto ad un trattamento speciale>.
Se l'uomo non avesse avuto il naso rotto avrebbe potuto sentire l'odore di whisky che filtrava tra i denti snudati di Maverick. La saliva fece delle bolle e gli sgorgò più copiosamente dalle labbra.
<Non sforzarti di parlare> sorrise Maverick sollevandosi, poi si voltò verso Pesce Lesso che smuoveva la terra di un formicaio con la punta di una scarpa.
Una scia nera e brulicante gli si stava già arrampicando su per la gamba, pronta a fare festa con la sua pelle, ma Pesce Lesso continuava a guardare estasiato quello spettacolo come se stesse accadendo ad un altro.
<Quel ragazzo ha proprio il cervello fottuto> commentò Maverick, rivolto a nessuno in particolare.
Da una tasca della giacca estrasse una siringa a cui tolse il cappuccio con i denti, per poi sputarlo nella piscina.
<Ricapitoliamo> fece all'uomo, sedendoglisi sopra e spostandogli la testa di lato <sei un tipo molto furbo di quarant'anni. La furbizia è un'ottima qualità oggigiorno> continuò, affondandogli senza fretta la siringa nel collo.
<E la tua furbizia ti ha portato tanta fortuna. Sei stato artefice del tuo successo, e questo mi piace.
Tristemente la buona sorte è destinata a decadere, prima o poi. Chiamalo karma, yin e yang, universo o come ti pare. Tutto gira, amico mio. Specie quando forzi la mano> concluse, estraendo la siringa vuota e gettandola via.
L'uomo fu attraversato da una specie di febbrile contrazione che mise in tensione il filo di rame, lacerandogli la camicia in più punti <Cos'era quella roba?> chiese sputando parole e frammenti di denti.
Maverick si alzò e sorrise come un ragno potrebbe sorridere ad una mosca.
<Vedi...? Comincia già a fare effetto. Niente di mortale, amico mio, anzi. È quello che ci vuole per tenerti sveglio. Il gentiluomo che ci ha ingaggiati vuole che tu rimanga bello arzillo per tutto il tempo possibile, durante lo spettacolo. E quell'iniezione fa proprio al caso tuo> gli strizzò l'occhio <Così come una robusta colazione è fondamentale per l'inizio di una buona giornata> sorrise, fischiettando il jingle dei Cap'N'Crunch.
<Antonio ti aveva ridotto maluccio, eh? Questi italiani... Non hanno proprio il senso della misura> continuò, guardando Heinrich, che trasportava un secchio per il concime pieno di attrezzi, e lo poggiava pesantemente accanto alla sedia. L'uomo legato non sembrava né molto in vena né in grado di scoprire cosa ci fosse dentro, nella sua situazione. Maverick invece si affacciò curioso sul bordo <Carino. Questi dovrebbero essere ottimi per cominciare... Heinrich, vuoi occupartene tu?>.
<Jawohl> annuì l'altro, leccandosi il labbro superiore.
Maverick si allontanò di qualche passo fino ad avere l'uomo difronte <Ultime notizie. Quel che sta per accadere non ti piacerà, ma è inevitabile. Anche se credo tu sia abbastanza sveglio per capirlo da te.
Così come credo non pregherai che all'ultimo momento pioveranno dal cielo le Forze Speciali, o Robocop o qualche altra cagata del genere a salvarti. Spero che ne sia valsa la pena, per te, di rubare quei soldi>.
Si girò di spalle proprio mentre il ronzio di un trapano a batteria perforava l'aria attorno alla piscina.
Maverick sentì parlare Heinrich con l'uomo legato. <Ora mi serve tuo ginocchio...>
Aveva ancora in mente quel forno messicano, e quanto gli sarebbe piaciuto cucinarci delle tortillas, dopo.
“È il genere di cosa che ci vuole, dopo un lavoro fatto bene” pensò.