sabato 2 novembre 2013

The doctor is in

Quando avevo quindici anni il medico mi disse che soffro di gastrite.
Ne soffrivo cioè allora, ne soffro adesso. Col tempo ho appreso che “soffrire” è l'accezione di “incurabile” che può essere meglio accettata nell'ottica cristiana occidentale.
Filosofia: un male necessario affinché il bene possa avere senso, o non necessario, comunque presente. Un concetto metafisico che galleggia al di sopra dell'umana capacità di eradicazione.
C'è della teologia anche nella medicina, penso.
Altrimenti dovrei pensare che si sia trattato solo di insensibilità, dire ad un ragazzino di quindici anni che dovrà trascinarsi un problema per il resto della sua vita.
Prendo dei farmaci.
Niente di che: il progresso scientifico si concretizza nell'arginare il problema. Diminuire più possibile il dato statistico delle crisi. Quando non basta, bisogna fare i conti col male, punto.
Carne contro morale: scontro impari, no?
Soffro, ogni tanto.
Per esempio quando dormo. Sistemi neuronali processano il disagio fisico prima in sogno, poi programmano il risveglio. Seduto sul letto sento una pappa calda salirmi languida fino ad accarezzare l'epiglottide. Sul fondo del palato, vicino alla gola, ingoio una massa di quello che sembra essere catarro, o bolo, o chimo, un pastone insensato di molecole semi-scomposte.
Un ronzio da montagne russe mi riporta al sonno perché non succede nient'altro. “Soffrire” è particolarmente calzante nel caso di una guerriglia tra il corpo e la malattia. È questo il caso.
Una parassitosi prima fisica, poi psicologica, la consapevolezza e l'attesa di soffrire.
Si comincia a soffrire poi in sottofondo, i picchi sono routine, conferma, ufficio. Timbrare il cartellino per sapere che la gastrite è ancora al caldo della tua pancia.
Mi capita di svegliarmi se sto male. Oppure no.


Quando ho sentito il diaframma arroventarsi stavo dormendo. Io sono corpo e mente?
Inviluppato nel sogno ho nutrito solo la vaga percezione di una marea ribollente, gialla, che esplodeva nel chakra addominale. Uno schizzo di acido sfrigolante che disegna un arco, come una perdita d'olio da una latta, spandendosi sull'eco di un terreno fisico che si è fatto non-luogo. Il mio corpo parla da un'altra stanza, abbastanza forte perché il processo inconscio in corso si dissolva come fumo di sigaretta attraversato da una mano.
Stranezze: parte un nuovo processo inconscio. La memoria si assesta nella cornice di una stanza, nude pareti di pietra grigia come quelle di un casale, un effetto inconsapevolmente rustico, non ricreabile da coreografi e designer di interni. Dimentico cosa stia succedendo.


Lei è seduta sul letto e mi sorride. Con la mano batte delicatamente, una volta sola, sulla trapunta rigonfia. Io mi siedo accanto a lei, e con naturalezza affondo il viso nell'incavo tra la sua spalla e il collo. Chiudo gli occhi e inspiro. In una dimensione attigua il super-io si irrigidisce nel raccapriccio per quello che sto facendo: proietta una fallace costruzione di inopportunità sociale, infrazione di regole di civile convivenza, invasione di spazi fisici condannabile da sguardi di disapprovazione e dal codice penale. Lei invece lascia che la mia fronte saggi il biondo sottile dei suoi capelli, e passa una mano tra i miei, dalla rasatura sulla nuca fino alla sommità del capo dove si fanno più folti.
Al buio degli occhi chiusi il suo odore risale per le narici e invade il lobo frontale, gocciolando freddo nella trachea e nell'esofago, gelo primaverile nella fornace del mio stomaco.
Persino qui, persino dove riesco a realizzare una tale mancanza di autocontrollo da dover dare corpo ad un benessere che attende solo alla mia volontà, lei è ancora la desiderata, l'innamorata di un altro. Senza smettere di sorridere scosta di poco il capo, una distanza appena sufficiente da non poter essere colmata con una scatto del mio che vorrebbe cercare un bacio. E infatti non mi muovo ancora, per minuti, passato il calore febbricitante della gastrite alla mia nudità psicologica si sovrappone una vergogna infantile per un atto che le ho empaticamente trasmesso di voler compiere. Quando sollevo la testa e incontro le sue iridi chiare, sassolini screziati di muschio, dico


Mi piace stare con te. È come stare con una mamma

Il costume onirico e quello analogico si fondono in una dichiarazione che avrebbe fatto la gioia di Freud. Lei dice qualcosa che ora non ricordo più, la voce resta per un secondo a fluttuare nella stanza immersa in un lucore uggioso, novembrino.
Fuori dalla finestra il panorama è un fotogramma agreste di cielo color lime su cui, in primo piano, sono ritagliate foglie di vite blu profondo, e un prato di violento azzurro che si arrotonda in forma di collina oltre il mio campo visivo.
Lei è un inquadratura a mezzo busto, indossa una giacca di lana smeraldo con i bottoni neri chiusa fino alla gola. La luce le si rifrange addosso come su un corpo bagnato, nell'oscurità rassicurante che potrebbe avere la pietra di un ponte, laddove l'acqua arriva a lambirlo: persino il bianco della pelle è sporco, ingrigito in una tridimensionalità che lo rende ancora più vivido e desiderabile.


Lo spazio si accartoccia verso un punto di fuga, strozzandosi fino a ribaltarsi in quello reale.
Mi sveglio: la luce si assottiglia per filtrare tra i fori delle tapparelle, sono supino tra le lenzuola disordinate ai miei piedi. Le dodici e un quarto, e io sto bene. Riprende una silenziosa attesa del martedì.