Quando avevo quindici anni il medico mi disse che soffro di
gastrite.
Ne soffrivo cioè allora, ne soffro adesso. Col tempo ho appreso
che “soffrire” è l'accezione di “incurabile” che può essere
meglio accettata nell'ottica cristiana occidentale.
Filosofia: un male necessario affinché il bene possa avere senso,
o non necessario, comunque presente. Un concetto metafisico che
galleggia al di sopra dell'umana capacità di eradicazione.
C'è della teologia anche nella medicina, penso.
Altrimenti dovrei pensare che si sia trattato solo di
insensibilità, dire ad un ragazzino di quindici anni che dovrà
trascinarsi un problema per il resto della sua vita.
Prendo dei farmaci.
Niente di che: il progresso scientifico si concretizza
nell'arginare il problema. Diminuire più possibile il dato
statistico delle crisi. Quando non basta, bisogna fare i conti col
male, punto.
Carne contro morale: scontro impari, no?
Soffro, ogni tanto.
Per esempio quando dormo. Sistemi neuronali processano il disagio
fisico prima in sogno, poi programmano il risveglio. Seduto sul letto
sento una pappa calda salirmi languida fino ad accarezzare
l'epiglottide. Sul fondo del palato, vicino alla gola, ingoio una
massa di quello che sembra essere catarro, o bolo, o chimo, un
pastone insensato di molecole semi-scomposte.
Un ronzio da montagne russe mi riporta al sonno perché non
succede nient'altro. “Soffrire” è particolarmente calzante nel
caso di una guerriglia tra il corpo e la malattia. È questo il caso.
Una parassitosi prima fisica, poi psicologica, la consapevolezza e
l'attesa di soffrire.
Si comincia a soffrire poi in sottofondo, i picchi sono routine,
conferma, ufficio. Timbrare il cartellino per sapere che la gastrite
è ancora al caldo della tua pancia.
Mi capita di svegliarmi se sto male. Oppure no.
Quando ho sentito il diaframma arroventarsi stavo dormendo. Io
sono corpo e mente?
Inviluppato nel sogno ho nutrito solo la vaga percezione di una
marea ribollente, gialla, che esplodeva nel chakra addominale. Uno
schizzo di acido sfrigolante che disegna un arco, come una perdita
d'olio da una latta, spandendosi sull'eco di un terreno fisico che si
è fatto non-luogo. Il mio corpo parla da un'altra stanza, abbastanza
forte perché il processo inconscio in corso si dissolva come fumo di
sigaretta attraversato da una mano.
Stranezze: parte un nuovo processo inconscio. La memoria si
assesta nella cornice di una stanza, nude pareti di pietra grigia
come quelle di un casale, un effetto inconsapevolmente rustico, non
ricreabile da coreografi e designer di interni. Dimentico cosa stia
succedendo.
Lei è seduta sul letto e mi sorride. Con la mano batte
delicatamente, una volta sola, sulla trapunta rigonfia. Io mi siedo
accanto a lei, e con naturalezza affondo il viso nell'incavo tra la
sua spalla e il collo. Chiudo gli occhi e inspiro. In una dimensione
attigua il super-io si irrigidisce nel raccapriccio per quello che
sto facendo: proietta una fallace costruzione di inopportunità
sociale, infrazione di regole di civile convivenza, invasione di
spazi fisici condannabile da sguardi di disapprovazione e dal codice
penale. Lei invece lascia che la mia fronte saggi il biondo sottile
dei suoi capelli, e passa una mano tra i miei, dalla rasatura sulla
nuca fino alla sommità del capo dove si fanno più folti.
Al buio degli occhi chiusi il suo odore risale per le narici e
invade il lobo frontale, gocciolando freddo nella trachea e
nell'esofago, gelo primaverile nella fornace del mio stomaco.
Persino qui, persino dove riesco a realizzare una tale mancanza di
autocontrollo da dover dare corpo ad un benessere che attende solo
alla mia volontà, lei è ancora la desiderata, l'innamorata di un
altro. Senza smettere di sorridere scosta di poco il capo, una
distanza appena sufficiente da non poter essere colmata con una
scatto del mio che vorrebbe cercare un bacio. E infatti non mi muovo
ancora, per minuti, passato il calore febbricitante della gastrite
alla mia nudità psicologica si sovrappone una vergogna infantile per
un atto che le ho empaticamente trasmesso di voler compiere. Quando
sollevo la testa e incontro le sue iridi chiare, sassolini screziati
di muschio, dico
“Mi piace stare con te. È come stare con una mamma”
Il costume onirico e quello
analogico si fondono in una dichiarazione che avrebbe fatto la gioia
di Freud. Lei dice qualcosa che ora non ricordo più, la voce resta
per un secondo a fluttuare nella stanza immersa in un lucore uggioso,
novembrino.
Fuori dalla finestra il panorama
è un fotogramma agreste di cielo color lime su cui, in primo piano,
sono ritagliate foglie di vite blu profondo, e un prato di violento
azzurro che si arrotonda in forma di collina oltre il mio campo
visivo.
Lei è un inquadratura a mezzo
busto, indossa una giacca di lana smeraldo con i bottoni neri chiusa
fino alla gola. La luce le si rifrange addosso come su un corpo
bagnato, nell'oscurità rassicurante che potrebbe avere la pietra di
un ponte, laddove l'acqua arriva a lambirlo: persino il bianco della
pelle è sporco, ingrigito in una tridimensionalità che lo rende
ancora più vivido e desiderabile.
Lo spazio si accartoccia verso un
punto di fuga, strozzandosi fino a ribaltarsi in quello reale.
Mi sveglio: la luce si
assottiglia per filtrare tra i fori delle tapparelle, sono supino tra
le lenzuola disordinate ai miei piedi. Le dodici e un quarto, e io
sto bene. Riprende una silenziosa attesa del martedì.