<<Devo apprendere il concetto
di riservatezza.
O un giorno mi ritroverò a passare
dei guai...>>
Gipi- “La mia
vita disegnata male”
Destra
e sinistra, moto armonico.
Il
mio corpo attraversa l'acqua come se nemmeno si potesse bagnare. È
questo il segreto per nuotare senza difficoltà: non fare alcuna
resistenza, lasciarsi trasportare. Respiro.
L'acqua
è piacevolmente fresca anche se continuo a dare bracciate da almeno
due ore. Quando mi fermo per controllare dove sono arrivato il cielo
si è annuvolato ancora di più. La luce è una polvere diffusa, come
cemento in sospensione, piove disordinatamente dalle sfilacciature
dei cumulonembi.
Rimango
così, con le braccia perpendicolari al corpo e solo la testa fuori.
Dalla
spiaggia non viene più alcun rumore, gli unici occupanti rimasti
sono gli ombrelloni, dritti e immobili come in attesa di qualcosa.
Comincio
a tornare verso riva senza neppure pensarci.
Ogni
tre secondi, ogni volta che riprendo fiato, mi rendo conto di non
sentire neppure un suono, sia sopra che sott'acqua.
Nuoto
al margine, al confine tra due possibilità: la superficie liquida è
l'orizzonte che posso decidere di lasciarmi sopra la testa o sotto i
piedi.
Immagino
di attraversare correnti calde sui fondali sabbiosi, spingermi dentro
abissi d'inchiostro. L'assenza di suoni è la condizione ideale: non
c'è alcun bisogno di trovare le parole.
Potrei
allontanarmi senza riemergere mai, andare a vivere dentro al relitto
di un veliero spagnolo, i bambini che mi indicano sporgendosi dalle
ringhiere dei traghetti.
E
invece mi rimetto in piedi con una rapidità impacciata, appena
l'acqua mi raggiunge le ginocchia; muovendosi, le mie gambe rompono i
cerchi perfetti creati dalle gocce che mi cadono dai gomiti, dalla
punta del naso, dal mento.
Raggiungo
lo zaino, controllo il cellulare. Mi siedo sui ciottoli, avvolto
nell'asciugamano blu scuro.
Nessun
nuovo messaggio.
Il
blu scuro del mio asciugamano è l'unico colore sul grigio della
spiaggia. Se qualcuno passasse da qui su di un elicottero, vedrebbe
immediatamente questa macchia inopportuna di blu scuro sui ciottoli
rotondi e grossi come il palmo della mia mano.
È
tutto grigio. La luce che danza sullo specchio irrequieto del mare.
L'acqua è grigia.
I
frangiflutti, dimenticati sparsi vicino al molo.
Il
deposito dei pedalò, dove le signore lasciano i materassini prima di
tornare a casa, scrivendo il proprio cognome sulla gomma con il
pennarello, non sia mai che l'altra, quella con le unghie da bagascia
e il sedere troppo grosso, prenda il loro.
Anche
gli ombrelloni sono diventati grigi, perché così compunti come
sono, si sentivano in dovere di adeguarsi.
Io
sono un po' abbronzato, a dir la verità, ma il grigio non mi
dispiace.
Ci
sono un sacco di luoghi comuni cretini sul grigio, perché sarebbe un
colore morto, immobile, il colore della monotonia. Questo è il
grigio del tempo che scivola via dal corpo svuotato dell'estate,
quando basta che il vento sia un po' più fresco per stringerti lo
stomaco, come se tentassi di afferrare un volo di farfalla.
Prendo
una boccata di salmastro.
Sarà
un luogo comune piuttosto stupido, ma è anche vero. Le cose vere
sono tutte un po' sceme.
Metto
gli occhiali da vista, frugo nello zaino. Accendo una sigaretta e
sento l'ulcera che mi esplode in una fuoriuscita di nausea
all'altezza del diaframma, come lava, mi sfiora sempre con un vago
presentimento di irreparabile.
Ho
scoperto che l'unica situazione in cui non sento il desiderio di
fumare si verifica quando sono a casa, senza fare nulla. Il fumo
procede di pari passo con la mia attività, è nemico dei pomeriggi
apatici spesi a rileggere i passi dei libri, a controllare le
previsioni meteo per la settimana. Se sono inattivo, non fumo.
Se
stessi a vegetare per sei mesi, non dovrei avere più grossi
problemi, ma mi rimane poco più che una decina di giorni da
trascorrere in questo modo.
“Ehi!”
Ha
detto proprio così.
Senza
che nessuno glielo avesse chiesto.
“Ehi!”
così, due volte.
Scritto
chiaro sul vago tappeto del vento.
Mi
volto e la vedo, appoggiata al muretto sopra alla saracinesca
abbassata della gelateria, con quella canottina bianca a righe rosse
e i capelli spettinati come una quindicenne.
Non
dico niente, chissà da quant'è che mi sta guardando.
Lei
sorride e butta in avanti quel mare biondo che le incornicia il
volto, allora sorrido un po' anch'io, ma continuo a stare in
silenzio. Altro che quindicenne, sono io che ci sto facendo la figura
del ragazzino.
“Guarda
che non ti conviene stare lì... Tra un po' viene a piovere!”
continua, senza curarsi minimamente che qualcuno possa trovare
fastidioso il suo tono in quell'ora sonnacchiosa.
Del
resto chi altro dovrebbe esserci?
Il
vento carica dal mare con più decisione, sento l'acqua gelarmisi
addosso.
Guardo
in alto, proprio dritto sopra alla mia testa, come per sincerarmi che
stia dicendo la verità, restando per qualche secondo ad osservare
una nuvola grande quanto un sogno spalancare lentamente la sua bocca
grigia, poi torno a ricambiare il suo sguardo. “Speriamo di no!”
le urlo di rimando, tenendomi stretto nell'asciugamano, la sigaretta
che odiosamente si consuma da sé.
Ovviamente
non potevo mancare in una simile situazione di fare un'osservazione
tanto idiota. Sopra tutto il paese si agitano quintali d'acqua,
vorticando nelle correnti che tra poco li faranno esplodere in una
cascata incessante, senza alcuna possibilità di riscatto, ed io
spero di no. Il quindicenne
sembra proprio aver preso il sopravvento.
Mi tiro su cercando di tener
fermo l'asciugamano con le tre dita che la sigaretta mi concede di
utilizzare, comunque troppo poche per questo soffio divino che ha
animato il telo di spugna, facendogli desiderare di fuggire via dalle
mie mani. Si dibatte, mi strattona come un animale impazzito mentre
cerca di farsi vela, seguendo le promesse dell'aria. La sigaretta
cade, lui d'improvviso si spalanca in un'unica ala di un inopportuno
blu scuro, troppo grande per le mie tre dita rimaste ancorate ad un
angolo della cucitura. Vola via. Un aquilone stropicciato, che si
agita sopra al mare come se volesse fargli il verso. Andato.
Sospiro, infilo la maglietta.
Cammino a testa bassa, fingendo di essere concentrato solo a non
scivolare su queste maledette infradito mentre faccio le scale per
tornare su.
Lei è ancora là, sul
marciapiede, con le mani sui fianchi, senza smettere di sorridere.
“Sei proprio uno a cui piace
il mare tu, eh...? Con questo tempo restano in casa persino i
pescatori” continua squadrandomi divertita come se avessi perso il
costume mentre mi tuffavo.
Io non sono mai stato bravo con
le frasi giuste: un mio compagno di università mi aveva spiegato che
certe donne hanno un atteggiamento infantilmente provocatorio perché
cercano un partner da assimilare ad una figura paterna mancata. Mi
sento come se stessi imparando ora ad andare in bicicletta, a pensare
a certi assiomi della marpionaggine sol perché una donna mi ha
rivolto la parola.
La fortuna del dilettante è
un'invenzione, tanto più che non appena provo a replicare che,
qualunque cosa ci faccia qui, anche lei è in giro con la tempesta
imminente, il cielo mi sputa in testa una secchiata di acqua gelida.
Piove.
È incredibile questa pioggia,
che cancella persino i profili bianchi delle case, che rende le palme
scosse dal vento solo uno stormire indefinito da qualche parte nel
mio campo percettivo.
Lei mi tira per la mano, corro
alla cieca guidato dallo scalpiccio delle sue ciabatte bianche sul
selciato. Ho solo delle visioni turbinose del mattonato grigio, delle
buche, delle cartacce disseminate, riesco a cogliere appena un angolo
del portico sotto il quale credo stiamo andando a rifugiarci.
La pioggia mi sferza senza
pietà, in una raffica kamikaze che mi spiaccica i vestiti addosso.
Sembra che non smetterà mai.
“Elisa” dice tendendomi la
mano. Ha una mano sottile, appena screziata da qualche ruga, che
corre per poco attraverso la pelle chiara. Rimango per qualche
secondo a fissare una goccia d'acqua rimasta imprigionata in una
ciocca davanti al suo viso, come un gioiello.
Mi esibisco in una stretta su
misura per il record di lentezza nelle presentazioni “Massimo”
sorrido.
Lei mi fissa per un attimo, poi
guarda il velo fitto della pioggia.
“Di solito non è così”
dice “vengo qui ogni estate da cinque anni ormai, e il tempo è
sempre stupendo. Lo so che sembra scemo da dire, ma questo posto ha
qualcosa di... Unico. Qualcosa che ti si radica dentro, appena
percettibile la prima volta che te ne vai via, ma che si fa sentire
sempre di più man mano che il tempo passa. Torna in un odore, nel
colore di una mattina qualunque”
si gira verso di me “Spero non
ti abbia rovinato la vacanza”.
Scuoto la testa appena
“Veramente io qui ci vivo. Cioè... ci vivevo”.
Vorrei fare una fotografia a
questa sua espressione sorpresa, da cucciolo di gatto
“Sono nato qui, però da
qualche anno abito a Vicenza” continuo “insegno chimica al
liceo”.
Lei ridacchia “Non sembri di
queste parti. Quand'ero più piccola credevo che gli uomini del sud
non amassero starsene soli sulla spiaggia a fumare. E non sei nemmeno
tanto villoso”.
Sbuffo. “Saresti sorpresa di
sapere quante sono le cose tremende che si nascondono dietro questi
stereotipi. È un po' come scoprire l'omino brutto che muove uno
splendido fondale a teatro, e sapere che è un alcolizzato, per
giunta”.
Lei ride, di una risata che
neppure la pioggia riesce a sciogliere in un turbinare d'acqua.
“Hai ragione, colpa mia” si
arrende “però hai avuto un bel modo di dirlo. Io sono di Firenze,
faccio la giornalista” mi dice, racchiudendomi tutto dentro uno
sguardo azzurro come il cielo qui non è stato mai.
Restiamo in silenzio.
La goccia rimasta imprigionata
nella sua ciocca freme per un secondo, poi cade a terra.