mercoledì 20 giugno 2012

Orizzonte


<<Devo apprendere il concetto di riservatezza.
O un giorno mi ritroverò a passare dei guai...>>
Gipi- “La mia vita disegnata male”


Destra e sinistra, moto armonico.
Il mio corpo attraversa l'acqua come se nemmeno si potesse bagnare. È questo il segreto per nuotare senza difficoltà: non fare alcuna resistenza, lasciarsi trasportare. Respiro.
L'acqua è piacevolmente fresca anche se continuo a dare bracciate da almeno due ore. Quando mi fermo per controllare dove sono arrivato il cielo si è annuvolato ancora di più. La luce è una polvere diffusa, come cemento in sospensione, piove disordinatamente dalle sfilacciature dei cumulonembi.
Rimango così, con le braccia perpendicolari al corpo e solo la testa fuori.
Dalla spiaggia non viene più alcun rumore, gli unici occupanti rimasti sono gli ombrelloni, dritti e immobili come in attesa di qualcosa.
Comincio a tornare verso riva senza neppure pensarci.
Ogni tre secondi, ogni volta che riprendo fiato, mi rendo conto di non sentire neppure un suono, sia sopra che sott'acqua.
Nuoto al margine, al confine tra due possibilità: la superficie liquida è l'orizzonte che posso decidere di lasciarmi sopra la testa o sotto i piedi.
Immagino di attraversare correnti calde sui fondali sabbiosi, spingermi dentro abissi d'inchiostro. L'assenza di suoni è la condizione ideale: non c'è alcun bisogno di trovare le parole.
Potrei allontanarmi senza riemergere mai, andare a vivere dentro al relitto di un veliero spagnolo, i bambini che mi indicano sporgendosi dalle ringhiere dei traghetti.
E invece mi rimetto in piedi con una rapidità impacciata, appena l'acqua mi raggiunge le ginocchia; muovendosi, le mie gambe rompono i cerchi perfetti creati dalle gocce che mi cadono dai gomiti, dalla punta del naso, dal mento.
Raggiungo lo zaino, controllo il cellulare. Mi siedo sui ciottoli, avvolto nell'asciugamano blu scuro.
Nessun nuovo messaggio.
Il blu scuro del mio asciugamano è l'unico colore sul grigio della spiaggia. Se qualcuno passasse da qui su di un elicottero, vedrebbe immediatamente questa macchia inopportuna di blu scuro sui ciottoli rotondi e grossi come il palmo della mia mano.
È tutto grigio. La luce che danza sullo specchio irrequieto del mare. L'acqua è grigia.
I frangiflutti, dimenticati sparsi vicino al molo.
Il deposito dei pedalò, dove le signore lasciano i materassini prima di tornare a casa, scrivendo il proprio cognome sulla gomma con il pennarello, non sia mai che l'altra, quella con le unghie da bagascia e il sedere troppo grosso, prenda il loro.
Anche gli ombrelloni sono diventati grigi, perché così compunti come sono, si sentivano in dovere di adeguarsi.
Io sono un po' abbronzato, a dir la verità, ma il grigio non mi dispiace.
Ci sono un sacco di luoghi comuni cretini sul grigio, perché sarebbe un colore morto, immobile, il colore della monotonia. Questo è il grigio del tempo che scivola via dal corpo svuotato dell'estate, quando basta che il vento sia un po' più fresco per stringerti lo stomaco, come se tentassi di afferrare un volo di farfalla.
Prendo una boccata di salmastro.
Sarà un luogo comune piuttosto stupido, ma è anche vero. Le cose vere sono tutte un po' sceme.
Metto gli occhiali da vista, frugo nello zaino. Accendo una sigaretta e sento l'ulcera che mi esplode in una fuoriuscita di nausea all'altezza del diaframma, come lava, mi sfiora sempre con un vago presentimento di irreparabile.
Ho scoperto che l'unica situazione in cui non sento il desiderio di fumare si verifica quando sono a casa, senza fare nulla. Il fumo procede di pari passo con la mia attività, è nemico dei pomeriggi apatici spesi a rileggere i passi dei libri, a controllare le previsioni meteo per la settimana. Se sono inattivo, non fumo.
Se stessi a vegetare per sei mesi, non dovrei avere più grossi problemi, ma mi rimane poco più che una decina di giorni da trascorrere in questo modo.
“Ehi!”
Ha detto proprio così.
Senza che nessuno glielo avesse chiesto.
“Ehi!” così, due volte.
Scritto chiaro sul vago tappeto del vento.
Mi volto e la vedo, appoggiata al muretto sopra alla saracinesca abbassata della gelateria, con quella canottina bianca a righe rosse e i capelli spettinati come una quindicenne.
Non dico niente, chissà da quant'è che mi sta guardando.
Lei sorride e butta in avanti quel mare biondo che le incornicia il volto, allora sorrido un po' anch'io, ma continuo a stare in silenzio. Altro che quindicenne, sono io che ci sto facendo la figura del ragazzino.
“Guarda che non ti conviene stare lì... Tra un po' viene a piovere!” continua, senza curarsi minimamente che qualcuno possa trovare fastidioso il suo tono in quell'ora sonnacchiosa.
Del resto chi altro dovrebbe esserci?
Il vento carica dal mare con più decisione, sento l'acqua gelarmisi addosso.
Guardo in alto, proprio dritto sopra alla mia testa, come per sincerarmi che stia dicendo la verità, restando per qualche secondo ad osservare una nuvola grande quanto un sogno spalancare lentamente la sua bocca grigia, poi torno a ricambiare il suo sguardo. “Speriamo di no!” le urlo di rimando, tenendomi stretto nell'asciugamano, la sigaretta che odiosamente si consuma da sé.
Ovviamente non potevo mancare in una simile situazione di fare un'osservazione tanto idiota. Sopra tutto il paese si agitano quintali d'acqua, vorticando nelle correnti che tra poco li faranno esplodere in una cascata incessante, senza alcuna possibilità di riscatto, ed io spero di no. Il quindicenne sembra proprio aver preso il sopravvento.
Mi tiro su cercando di tener fermo l'asciugamano con le tre dita che la sigaretta mi concede di utilizzare, comunque troppo poche per questo soffio divino che ha animato il telo di spugna, facendogli desiderare di fuggire via dalle mie mani. Si dibatte, mi strattona come un animale impazzito mentre cerca di farsi vela, seguendo le promesse dell'aria. La sigaretta cade, lui d'improvviso si spalanca in un'unica ala di un inopportuno blu scuro, troppo grande per le mie tre dita rimaste ancorate ad un angolo della cucitura. Vola via. Un aquilone stropicciato, che si agita sopra al mare come se volesse fargli il verso. Andato.
Sospiro, infilo la maglietta. Cammino a testa bassa, fingendo di essere concentrato solo a non scivolare su queste maledette infradito mentre faccio le scale per tornare su.
Lei è ancora là, sul marciapiede, con le mani sui fianchi, senza smettere di sorridere.
“Sei proprio uno a cui piace il mare tu, eh...? Con questo tempo restano in casa persino i pescatori” continua squadrandomi divertita come se avessi perso il costume mentre mi tuffavo.
Io non sono mai stato bravo con le frasi giuste: un mio compagno di università mi aveva spiegato che certe donne hanno un atteggiamento infantilmente provocatorio perché cercano un partner da assimilare ad una figura paterna mancata. Mi sento come se stessi imparando ora ad andare in bicicletta, a pensare a certi assiomi della marpionaggine sol perché una donna mi ha rivolto la parola.
La fortuna del dilettante è un'invenzione, tanto più che non appena provo a replicare che, qualunque cosa ci faccia qui, anche lei è in giro con la tempesta imminente, il cielo mi sputa in testa una secchiata di acqua gelida.
Piove.
È incredibile questa pioggia, che cancella persino i profili bianchi delle case, che rende le palme scosse dal vento solo uno stormire indefinito da qualche parte nel mio campo percettivo.
Lei mi tira per la mano, corro alla cieca guidato dallo scalpiccio delle sue ciabatte bianche sul selciato. Ho solo delle visioni turbinose del mattonato grigio, delle buche, delle cartacce disseminate, riesco a cogliere appena un angolo del portico sotto il quale credo stiamo andando a rifugiarci.
La pioggia mi sferza senza pietà, in una raffica kamikaze che mi spiaccica i vestiti addosso. Sembra che non smetterà mai.
“Elisa” dice tendendomi la mano. Ha una mano sottile, appena screziata da qualche ruga, che corre per poco attraverso la pelle chiara. Rimango per qualche secondo a fissare una goccia d'acqua rimasta imprigionata in una ciocca davanti al suo viso, come un gioiello.
Mi esibisco in una stretta su misura per il record di lentezza nelle presentazioni “Massimo” sorrido.
Lei mi fissa per un attimo, poi guarda il velo fitto della pioggia.
“Di solito non è così” dice “vengo qui ogni estate da cinque anni ormai, e il tempo è sempre stupendo. Lo so che sembra scemo da dire, ma questo posto ha qualcosa di... Unico. Qualcosa che ti si radica dentro, appena percettibile la prima volta che te ne vai via, ma che si fa sentire sempre di più man mano che il tempo passa. Torna in un odore, nel colore di una mattina qualunque”
si gira verso di me “Spero non ti abbia rovinato la vacanza”.
Scuoto la testa appena “Veramente io qui ci vivo. Cioè... ci vivevo”.
Vorrei fare una fotografia a questa sua espressione sorpresa, da cucciolo di gatto
“Sono nato qui, però da qualche anno abito a Vicenza” continuo “insegno chimica al liceo”.
Lei ridacchia “Non sembri di queste parti. Quand'ero più piccola credevo che gli uomini del sud non amassero starsene soli sulla spiaggia a fumare. E non sei nemmeno tanto villoso”.
Sbuffo. “Saresti sorpresa di sapere quante sono le cose tremende che si nascondono dietro questi stereotipi. È un po' come scoprire l'omino brutto che muove uno splendido fondale a teatro, e sapere che è un alcolizzato, per giunta”.
Lei ride, di una risata che neppure la pioggia riesce a sciogliere in un turbinare d'acqua.
“Hai ragione, colpa mia” si arrende “però hai avuto un bel modo di dirlo. Io sono di Firenze, faccio la giornalista” mi dice, racchiudendomi tutto dentro uno sguardo azzurro come il cielo qui non è stato mai.
Restiamo in silenzio.
La goccia rimasta imprigionata nella sua ciocca freme per un secondo, poi cade a terra.



lunedì 4 giugno 2012

Gemini


<<Se l'ombre nostre v'han dato offesa
voi fate conto
che v'abbiano colto queste visioni
mentre eravate preda del sonno...>>
William Shakespeare- “Sogno di una notte di mezza estate”

Tac.
<Scacco matto> disse Efebo muovendo il secondo alfiere a una casella dal re. Il suo tono era piatto come la neve che si deposita sul prato.
Phobos non rispose. Si limitò a schiacciare la sigaretta nel posacenere. Il mozzicone spegnendosi emise un suono sfrigolante.
<Vuoi fare un'altra partita?> domandò Efebo disponendo nuovamente i pezzi neri sul suo lato della scacchiera. Phobos scosse la testa.
<No> si schiarì la voce <qualcosa mi dice che vinceresti ancora tu>.
Si erano divisi i pezzi trentatré anni prima. Avevano scommesso che i neri li avrebbe posseduti chi fosse arrivato per primo sull'altra sponda del lago.
Mentre nuotava, Efebo aveva guardato Phobos con la coda dell'occhio ogni volta che tirava la testa fuori per respirare. Lo vedeva schiaffeggiare furiosamente l'acqua come se avesse voluto spostarla per fare più in fretta.
Avrebbe voluto lasciarlo vincere, ma qualcosa l'aveva spinto a continuare, fino a raggiungere il traguardo prima di lui. Un irrisolto senso di pietà.
<Sei sicuro di non voler tenere tu i neri?> Aveva chiesto Efebo, mentre erano ancora distesi a riprendere fiato sulla riva sabbiosa. Phobos l'aveva fissato per qualche istante. Nella luce del giorno che portava la pioggia, un lampo verde era guizzato nel pozzo fondo dei suoi occhi.
<No.> aveva ansimato, spostando i capelli corvini che gli si appiccicavano sulla fronte <No. Hai vinto tu. È giusto che sia così. L'abbiamo deciso insieme>.
Avevano sette anni.
Da allora Efebo non aveva perso al gioco neppure una volta. I pezzi di avorio di Phobos, presto o tardi, venivano decimati dall'armata d'ebano, come denti nella bocca di un vecchio.
A dir la verità, Efebo non aveva mai perso in nulla durante tutta la sua vita, eppure nutriva la sottile convinzione che spesso Phobos si lasciasse sconfiggere apposta.
Forse credeva di tributare sempre nuove vittorie a quei pezzi che gli sarebbero spettati di diritto.
Non gliel'ho chiesto io di scommettere su chi avrebbe tenuto i pezzi neri” rifletté, guardando il fratello.
Phobos, il ventre gonfio strizzato nell'abito, spuntava dalla penombra della stanza come un'escrescenza oscura, un'appendice fisiologica del buio stesso.
Quel volto, un tempo un'unica pennellata di pallore perfetto, era del giallo dei malati fegato. Sotto il cappello stropicciato ostentava gli occhi pesti e il naso deviato di chi ha fatto a botte con uno parecchio più bravo di lui. Tutta la fisionomia di Phobos trasudava un colaticcio lucido che si appiccicava al colletto della camicia e si infiltrava nella cravatta come un'infezione.
Efebo finì di sistemare anche i pezzi bianchi sulla scacchiera e si allungò sulla poltroncina girevole.
Phobos mosse lo sguardo verso la porta dell'ufficio, mentre un'ombra danzava sul panello di plexiglass. Scienza bussò alla porta e affacciò il cranio pelato nella stanza. Efebo emise un soave verso interrogativo.
Scienza si sistemò gli occhiali rotondi sul naso <Un cliente, capo. Dice che vuole parlare con un certo signor Efebo Ephobos>.
Efebo fece cenno di farlo accomodare e si sistemò meglio sul cuscino della poltroncina.
Il cliente era una sagoma nera ritagliata nella luce della sala d'attesa. Il bianco della lampada alogena di Scienza punzecchiò l'oscurità dell'ufficio.
<Il signor Ephobos?> domandò richiudendosi la porta alle spalle <Ho preso appuntamento la scorsa settimana per farmi ricevere>.
Phobos sbuffò ma non si mosse, gettato sulla sua sedia come una montagna di cappotti vecchi.
Efebo sorrise. Il sorriso di Efebo era la lama di un bisturi misericordioso nel buio.
Gli occhi saettavano con riflessi al curaçao, gli unici compagni della camicia, visto che la pelle bruna aveva battuto in ritirata dalla vista. Il gatto del Cheshire.
L'uomo faticò a trovare la mano da stringere, poi si sedette.
<Vede> cominciò <io...>
<È una congiunzione> lo interruppe Phobos, come se la notte l'avesse appena risputato fuori.
<e-Phobos> proseguì <non Ephobos. Phobos è il mio nome. Io sono Phobos>.
L'uomo non sembrò eccessivamente sorpreso da quella comparsa. Le sue palpebre sbatterono con un suono umido un paio di volte, come una macchina che registri un avvenimento e poi lo archivi.
Efebo inclinò leggermente la testa da un lato <Phobos, il mio socio> tacque per qualche istante <mio fratello> aggiunse infine. L'uomo non disse nulla.
Efebo andò per un attimo con la mente alla scritta “Efebo e Phobos” dipinta sul pannello di plexiglass della porta dell'ufficio. Una riga tracciata col pennarello nero, dritta e profonda come un'unghiata, separava la “e” dal nome di Phobos. L'aveva disegnata lui qualche anno prima.
La gente tende a dimenticarsi di me” aveva spiegato.
Forse avrebbe dovuto lasciare far mettere al fratello il nome prima del suo. “Phobos e Efebo”.
Anche se ci fossero stati errori nessuno l'avrebbe notato: avevano lanciato una vecchia moneta per decidere. Testa o croce?
<I miei datori di lavoro ritengono opportuno servirsi della sua agenzia> riprese il cliente, guardando la camicia di Efebo <la vostra agenzia> si affrettò a correggersi.
Phobos strizzò l'occhio al cliente senza alcuna smorfia, come se fosse stato un tic:
in mezzo al colaticcio della faccia, sembrò che il bulbo stesse per sgusciare fuori dall'orbita come quello di un pesce ben cotto.
Efebo rincorse i tasti di un pianoforte invisibile sul bordo della scrivania
<Lei è un Delegato, giusto> computò, lasciando un punto interrogativo in dissolvenza. Il cliente emise un verso di approvazione.
<E lei è molto perspicace> ammise, con l'orgoglio della scelta giusta, mettendosi più comodo sulla poltroncina. Nel buio uno spillo bianco guizzò nuovamente tra le labbra di Efebo.
<Molto perspicace> ripeté schiacciando le parole come frutti dolci
<Efebo molto perspicace. Dovremmo scriverlo sulla porta> concluse, rivolto a nessuno in particolare. Constatazioni oggettive.
Sorridere insieme ad Efebo era come aprire l'ombrello per ripararsi durante un uragano.
<I miei datori di lavoro possono pagare bene> aggiunse il cliente <Le vostre cifre sono prestabilite, ma possiamo anche tener fronte agli extra>.
<C'è un bambino che ha paura del buio> disse Phobos, come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento.
Il cliente vide che parlava puntando il naso sbilenco in un punto imprecisato ai suoi piedi.
<Il bambino non vuole che il padre lo mandi in cantina quando è stato cattivo. La cantina è fredda. Il bambino sente l'oscurità che si raccoglie ai suoi piedi e gli striscia dietro al collo, come un insetto che voglia saggiare la preda. La cantina scricchiola perché è viva> continuò quasi tra sé e sé. Al cliente sembrò di sentire un fruscio in sottofondo, come di un nastro registrato.
<Tempo dopo il bambino non è più solo in cantina. Con lui ci sono sua madre, suo padre, sua sorella. Ma ha ancora paura> Phobos sollevò la testa in direzione del cliente: nonostante il colore degli abiti, era il più visibile nella penombra.
<Il padre dice che devono restare in cantina per nascondersi dagli uomini cattivi. Uomini che urlano e attraversano le strade bagnate di pioggia a passo di marcia. Devono stare in silenzio nella pancia della cantina che è un animale cieco.
Ma il bambino non riesce a spiegarselo>.
Efebo picchettò un'unghia sulla scacchiera per richiamare l'attenzione, ma il cliente continuò a fissare Phobos. Nella penombra ammiccava lo sguardo sgranato di un coniglio davanti al lucido serpente che si srotola e soffia.
<“Sono loro i cattivi”, dice il bambino>
<“Sono loro che dovrebbero stare in cantina”> recitò <Dice proprio così>.
Phobos chiuse piano gli occhi. Il cliente sentì che inspirava profondamente, flettendo la schiena all'indietro. Era come se fosse lui stesso a respirare e muoversi.
<Mi scuso per mio fratello> la voce di Efebo si insinuò nell'aria come miele <a volte dice cose senza significato. È sempre stato un bambino problematico> affermò senza alcuna sfumatura. Un'ottava perfetta nella sala da concerto vuota.
<Era il 1942> replicò Phobos.
<Come ho già detto...>
<1942. A Praga.> insisté Phobos, che era tornato a piegarsi sulla pancia. Sembrava uno scolaretto che si vergognasse di essere rimproverato.
<Io c'ero>.
<Fai silenzio, Phobos> ordinò Efebo picchettando di nuovo con l'unghia su una casella. Nella bianca armonia del tono sembrava essersi appena formata una crepa. Il cliente ebbe l'immagine di una grande massa d'acqua scura che prema sulle pareti di una cupola di cristallo. Gli sembrò di essersi addormentato per qualche secondo, e che solo ora si fosse ricordato del motivo per cui era lì.
Tirò fuori la busta dalla giacca e la fece scivolare verso Efebo.
<Dentro c'è l'anticipo. E le informazioni di cui potreste avere bisogno> spiegò, lievemente affannato. Efebo sfiorò la carta bianca con un dito affusolato.
<Va bene. Accettiamo> sussurrò infine, senza toccare ulteriormente la busta.
Nell'ufficio calò il silenzio.
Il cliente si schiarì la gola <Noi abbiamo lavorato anche con l'Industria del Pop> affermò, quasi senza una motivazione precisa. Sembrava stesse leggendo un prestampato.
<Quelli dell'Industria del Pop fanno venire i brividi anche a me> rifletté Phobos alzandosi dalla poltroncina.
<Portano sempre quelle maschere tutte uguali. Quelle con il sorriso dipinto> continuò, indietreggiando nel punto più buio della stanza. Quando fu inghiottito completamente la sua voce divenne un basso pulsare di suoni ovattati.
<Non ho mai visto qualcuno che l'abbia messa e che sia poi riuscito a toglierla> concluse.
<Io sì> rispose Efebo da dietro la scrivania <ma non era un bello spettacolo>.
Dal buio non arrivò alcuna risposta.
<Dov'è andato?> chiese il cliente. La porta non era stata aperta.
<Mi pare ovvio> rispose Efebo, adagiando ogni singola parola con la cura del pittore
<è andato a ballare il ballo di Madama la Morte. Col sorriso e le scarpe buone...>.
Il cliente fissò per qualche istante il punto da cui la voce di Phobos era giunta per l'ultima volta, poi si alzò e tese la mano a Efebo.
<Credo che le nostre trattative siano concluse>.
Efebo rimase immobile e non rispose. Al buio il cliente, la mano ancora a mezz'aria, sentiva il ritmo regolare del suo respiro.
La lasciò cadere <Arrivederci> si congedò poi, voltandosi verso l'uscita.
A metà della stanza Efebo parlò.
<È il suo primo incarico, vero> disse alzandosi in piedi.
Il cliente non capì se si trattasse di un'affermazione o una domanda <Prego?>.
<È il suo primo incarico> ripeté Efebo con il medesimo tono.
La risatina nervosa del cliente si accartocciò davanti al suo naso <Come fa a saperlo? È una specie di mago o qualcosa del genere?> ironizzò, voltandosi nuovamente verso la scrivania. Affondo di scherno a vuoto.
<Lei non si è mai chiesto perché i Delegati vengono assunti uno per volta> aggiunse Efebo per tutta risposta.
<Le hanno detto che il suo è un lavoro di responsabilità> spiegò, girando lentamente dall'altra parte del tavolo <Anche se, tecnicamente, lei è parte del pagamento>.
Il deserto del tono sembrava aver raggiunto un diesis divertito.
<Cosa sta dicendo?> chiese il cliente. Se avesse avuto uno specchio, si sarebbe potuto congratulare con sé stesso per la perfetta espressione adirata. Aveva l'attitudine della promozione gerarchica.
< Toto,> arabescò Efebo premendo il bottone per accendere il lampadario
<ho l'impressione che noi non siamo più nel Kansas>.
Nell'ufficio illuminato, il cliente spalancò gli occhi e provò a gridare.
Il grido è un riflesso incondizionato pressoché inutile. In tempi remoti, serviva a segnalare una minaccia imminente per l'individuo e quindi una minaccia potenziale per l'intero gruppo.
Ma non c'era nessuno oltre a loro due in quella stanza.
Quando vide la luce accendersi, Scienza alzò il volume della filodiffusione nella sala d'attesa. Vivaldi.
Efebo fece un passo verso il cliente. Il suo collo scattò in avanti una sola volta.
E gli mangiò la testa.

Stacco e...

dissolvenza.